Da almeno un paio di anni era il refrain che scandiva ogni decisione di politica monetaria. Immutabile, incorreggibile, non rottamabile. Al punto da sembrare la coperta di Linus della Bce, oppure uno di quei cimeli capaci di sopravvivere ai traslochi. Ma tutto passa, prima o poi. Così, ieri, l'Eurotower ha cancellato il cosiddetto easing bias sul quantitative easing. Tradotto in italiano, significa che è giunto al capolinea l'impegno ad accelerare il ritmo e la quantità degli acquisti nel caso in cui «le prospettive diventassero meno favorevoli». Una decisione, ha spiegato Mario Draghi in conferenza stampa, «presa all'unanimità». Board ricompattato, malgrado le divisioni su come procedere nella rimodulazione delle linee-guida e nonostante il dibattito su chi finirà, nell'ottobre 2019, sulla poltrona di numero uno della banca centrale. Argomento reso ancor più caldo dopo la nomina alla vicepresidenza di un politico come lo spagnolo Luis de Guindos, ma stemperato da Draghi con un po' d'ironia: «Il prossimo presidente? Mi fate domande come se dovessi andarmene domani, ma io sarà qui ancora per un po'... Tocca ad altri giudici, non sta a me decidere qual è il profilo migliore».
Anche se non è un'inversione a U, nè sposta di colpo il baricentro dell'Eurotower sul versante dei falchi, la mossa è tuttavia la conferma di come ormai la giostra del Qe stia compiendo gli ultimi giri. È la crescita economica, che «ha mostrato un'accelerazione superiore alle aspettative nella seconda metà del 2017», ad aver determinato la scelta di abbandonare l'easing bias, anticipandone il timing di qualche mese (la maggior parte degli analisti prevedeva che la decisione sarebbe stata presa non prima di giugno). Con le più recenti stime che hanno aggiustato al rialzo la crescita 2018 (+2,4% il Pil), lasciando invariate quelle per l'anno prossimo (+1,9%) e per il 2020 (+1,7%), ci sarebbe lo spazio per procedere con più rapidità verso la fine dello shopping di titoli. Eppure, la Bce continua a tenersi la sua sliding door: gli acquisti mensili da 30 miliardi continueranno fino a settembre «e anche oltre se necessario», è stato ribadito ieri. Questa cautela è giustificata non solo dall'andamento dell'inflazione, verso la quale - ha ammesso Draghi - «ancora non si può dichiarare vittoria». Ci sono elementi esterni che inducono l'Eurotower a non abbassare la guardia. Due in particolare, con indirizzo noto: 1600 Pennsylvania Ave, Washington. La sede della Casa Bianca. Negli ultimi mesi l'ex governatore di Bankitalia ha più volte mostrato di essere tutt'altro che allineato con le posizioni di Donald Trump. La ventilata introduzione di dazi su acciaio e alluminio e i propositi di smantellare le norme adottate per il settore finanziario dopo la crisi dei mutui subprime hanno rafforzato le convinzioni di Draghi. Senza indulgere in toni diplomatici, ieri il capo della Bce ha detto ciò che pensa: «Oggi vedo due grandi rischi: il commercio e la deregulation finanziaria». Per gli anni a venire c'è il rischio che si ripetano gli stessi errori del passato: «una massiccia deregolamentazione in una parte importante del mercato impatterebbe tutte le altre trattandosi di mercati globali». A preoccupare, inoltre, non sono soltanto i venti di guerra commerciale, ma anche il modus operandi del tycoon.
Le «azioni unilaterali» sul commercio estero sono «pericolose», dal momento che rischiano di creare una spirale fatta di ritorsioni, con impatti sull'andamento del cambio e sulla crescita economica. In ogni caso, «se metti tariffe contro i tuoi alleati, ci si chiede chi sono i nemici?».
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