La Svizzera piega il franco comprando «fette» di Apple

Nel bilancio gli investimenti in azioni pesano per il 20% del totale: così si stabilizza il cambio in modo da difendere le esportazioni

Dai picchi vertiginosi del febbraio 2015, quando a Wall Street valeva più di 130 dollari, Apple ha lasciato sul terreno circa 40 dollari. Più che morsicata, una mela bucherellata. Anzi, un gruviera, se vista dal coté svizzero. Ovvero dal versante della Swiss National Bank, la Bce dei 27 cantoni elvetici, che della creatura di Steve Jobs è tra gli azionisti di gran peso. A fine 2015, la banca centrale di Berna aveva già in portafoglio 10,5 milioni di titoli del colosso di Cupertino; nel primo trimestre dell'anno scorso ha rilanciato, aggiungendone altri 4,1 milioni senza curarsi troppo del passo da dottor House degli iPhone. La trimestrale choc di Apple, con il primo calo delle vendite da 13 anni, ha infatti presentato il conto alla Snb, sotto forma di circa 80 milioni di dollari polverizzati in una sola seduta, quella dello scorso 27 aprile. Incerti del mestiere di banchiere centrale.

Ai corsi attuali, l'intero pacchetto vale oltre 1,3 miliardi di dollari (una cifra superiore al miliarduccio investito nella Apple dal finora riluttante Warren Buffet, fan dichiarato di Ibm), eppure si tratta solo di una fetta di quella gigantesca torta che, a fine marzo, comprendeva azioni per il 20% del totale degli investimenti esteri, tra cui big della Borsa di New York come Coca-Cola, Exxon Mobil, Microsoft, Johnson&Johnson, General Electric, Verizon e Facebook. Snb sta progressivamente riducendo il peso dei bond governativi, che rappresentano ora il 68% contro il 71% dell'ultimo trimestre 2015, a vantaggio dell'azionario. Anche se la volatilità dei mercati è un rischio che si finisce per pagare a caro prezzo: 23 miliardi di franchi di perdite l'anno scorso, il rosso più rosso dalla fondazione (anno di grazia 1907), in un bilancio che vede asset per 620 miliardi di franchi.

D'altra parte, per la banca rosso-crociata non ci sono alternative. Perchè ogni mossa ha un unico obiettivo: impedire un eccessivo rafforzamento del cambio, una vera iattura per un'economia con l'export come cromosoma dominante del dna. Così, le rotative elvetiche stampano franchi come se non ci fosse un domani, e la liquidità viene poi usata per far shopping sui mercati internazionali. Se le Borse stanno in piedi, non è solo per la Fed, la Bce, o la Bank of Japan, ma anche grazie alla meno appariscente Bns che con i suoi acquisti concorre a inflazionare i prezzi azionari.

Per tenere a bada il cambio, dal 2010 gli svizzeri hanno speso 470 miliardi di franchi, la più parte serviti per mantenere artificiosamente agganciata a quota 1,20 (ora è a 1,10), la moneta nazionale all'euro a partire dal settembre 2011, quando la disgregazione dell'euro sembrava a un passo, e fino

al gennaio dello scorso anno. Certo, il comportamento appare più da hedge fund che da banca centrale, la cui regola aurea dovrebbe essere la neutralità. Ma, in fondo, sono sottigliezze per chi da anni si sente in trincea.

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