Usa e Cina in frenata: le Borse vanno al tappeto

Usa e Cina in frenata: le Borse vanno al tappeto

È sperabile che Janet Yellen non sia superstiziosa. In tal caso, la donna destinata a guidare la Federal Reserve fino al febbraio 2018 potrebbe anche pensare che il suo mandato sia nato sotto una cattiva stella. Qualche brutto pensiero, peraltro, potrebbe comunque essere venuto ieri all'ex allieva di James Tobin subito dopo la cerimonia di giuramento, tenuta di fronte al grande caminetto nella sala del consiglio della Fed. Un caldo benvenuto non corrisposto da Wall Street, dove gli indici hanno subìto una gelata progressiva col passare della giornata, fino a cedere a metà seduta oltre l'1,5%. Ciò ha finito per amplificare i ribassi nelle Borse europee, già maldisposte dal vistoso arretramento di Tokio (-2%) legato all'apprezzamento dello yen, e all'ulteriore conferma che la Cina è in frenata. Pechino deve fare i conti con lo scivolamento sotto i 50 punti dell'indice manifatturiero, un'impresa non facile perchè oltre a soffiare in senso contrario i venti dell'export e della domanda interna, si va anche estendendo la pratica dei licenziamenti, mai tanto numerosi dal marzo 2009.
Così, sotto i colpi delle vendite, a Piazza Affari il Ftse-Mib ha abbandonato i 19mila punti piegandosi del 2,63%. Un ribasso di proporzioni non molto dissimili dal -3% accusato in occasione del black friday dello scorso 24 gennaio, quando la crisi dei Paesi emergenti e la tempesta valutaria scatenatasi su Argentina e Turchia erano costati ai mercati del Vecchio continente 220 miliardi di capitalizzazione. A conti fatti, il listino milanese ha bruciato in meno di un mese oltre 1.000 punti denunciando una fragilità che rischia di aumentare se sui mercati continueranno ad arrivare cattive notizie. Soprattutto dagli Stati Uniti. Prima dell'opening bell, la campana che apre le danze del mercato azionario americano, ieri l'adamento dei futures sembrava preludere a una seduta in rialzo. Poi, invece, è arrivata la doccia gelata: l'attività industriale è calata in gennaio a 51,3 punti contro i 56 previsti dagli analisti. È il segno che qualcosa ancora non gira, soprattutto a livello di produzione industriale e nuovi ordini. Tanto basta a suscitare timori sulla sostenibilità della crescita nel momento in cui la Fed ha deciso di tirare i remi in barca. Il drenaggio di liquidità sta avvenendo con gradualità (20 miliardi di dollari in meno in due mesi), ma a peggiorare il quadro vi sono anche i timori che il Congresso si incagli nuovamente sul nodo del debt ceiling, il tetto sul debito, la cui scadenza è prevista per venerdì prossimo.
In questo scenario complessivamente perturbato, dall'eurozona arrivano invece segnali più rassicuranti.

Nel terzo trimestre 2013 il deficit è sceso al 3,1% del Pil, mentre l'indice del settore manifatturiero di gennaio è salito a 54 punti da 52,7 di dicembre, il livello più alto da 32 mesi. Tuttavia, in vista del vertice di giovedì, sulla Bce cresce il pressing affinchè Mario Draghi dia indicazioni sugli strumenti non convenzionali che potrebbero essere utilizzati per sostenere la ripresa.

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