Le economie invisibili che raccontano la vita

Secondo Maria Zambrano, l’uomo inizia a essere tale quando getta uno sguardo consapevole sul mondo. Ma il semplice vedere non basta: noi diventiamo anthropoi solo se da quello stesso mondo ci sentiamo, contemporaneamente, osservati, forse spiati. Ma nulla è più inquietante d’un occhio anonimo che incombe, ci raggiunge dovunque e non si sa da chi provenga. Meglio, allora, raffigurarcelo come appartenente a Dio o a un demone, piuttosto che ascriverlo a «qualcosa» di abissalmente ignoto. Meglio ancora pensarlo attraverso la metafora d’una luce originaria, buona e divina, che tutto illumina. E a partire da quella luce, le cose e gli eventi acquistano profili, contorni; diventano immagini. E noi, conferendo loro una forma semiumana, le rendiamo, in qualche maniera, meno enigmatiche. Il mondo senza nome che mi vede diventa, a quel punto, più vicino, più abitabile. La sua ostilità sarà, per sempre, neutralizzata o rimossa. Inizia la cultura. Oltre a una figura, io posso conferire a quelle immagini anche una capacità verbale. Allora, l’universo diventa un contenitore di sguardi e di voci che si rivolgono a me. E io dovrò rispondere alle voci, restituire gli sguardi, avviare una sorta di scambio e di dialogo interminabile. Credo che l’ultimo libro di Roberto Mussapi (La stoffa dell’ombra e delle cose, Mondadori, pagg. 87, euro 12) nasca a partire da un’intuizione simile. Tutto, nelle sue pagine, parla, racconta, ricorda, sogna, a volte rimpiange di non essere più. Ma il linguaggio travalica la «casa umana» e sembra abitare ovunque: negli dei, negli eroi, nella storia, nelle acque e nei sassi. Dunque, parlano fiori, insetti, opere, archetipi mitici, uomini che furono. Grandi, meno grandi. La poesia di Mussapi, in fondo, tende a sintonizzarsi e rispondere a queste voci, a un senso globale che circola dovunque e che fa dell’essere un unico, immenso codice.
Così, con una misura ritmica oscillante tra l’endecasillabo e la pentapodia giambica, La stoffa dell’ombra e delle cose ripropone il grande teorema romantico secondo cui tutto è rappresentabile, traducibile: una tinta conosce il proprio corrispondente in un suono puro, questo in una parola sensata, questa in altro ancora: inizia un gioco di omologie senza fine, una coralità assoluta. E le pagine di Mussapi sono attraversate da «stranezze» che ricordano, a volte, le paranoie uditive di Pascoli: fanno ascoltare cosa dicono i colori, le atmosfere rarefatte o pesanti. E le farfalle, gli olivi, gli ippocampi.
La cura ossessiva della forma è sempre stata essenziale nella poesia di Mussapi. In questo libro, tuttavia, sembra che a tenere insieme i componimenti lavori, invisibile, anche una tensione al poema: arcitesto che passa tra righe e parole. A suo volta, quel movimento verso l’ordine poematico rispecchia un ordine universale, quello che regge le trasformazioni dell’essere. Ordine al quale ogni singolarità tende e si adegua. Per questo, nelle voci che il libro fa ascoltare, non c’è disperazione o rivolta, ma una sorta di inquieta accettazione dell’alternasi di vita e morte, una presa d’atto di economie invisibili. Ogni voce, alla fine, racconta che qualcuno o qualcosa si piega a un disegno assoluto. A un piano incomprensibile.

E al gioco di comparse e dissoluzioni appartiene anche la voce dell’autore, che si uniforma a quello che sembra un canto generale. Scritto da un poeta colto e laicissimo, quasi obbligato dalla vita a esprimersi come un mistico.

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