Tutti gli All Blacks si allenano sul prato dell’Arena - sotto un inverosimile sole novembrino e sopra un altrettanto inverosimile prato-moquette - con la maglietta grigia da allenamento. Per vederli allenare (nemmeno allenare: passarsi la palla, provare un po’ di calci e prese al volo, la mischia, fare qualche accenno di maul*) sono venuti milleduecento studenti delle scuole superiori milanesi, ragazzi e ragazze che - tranne rare eccezioni - non hanno mai visto una partita di rugby in vita loro. E quindi non sanno immaginare il dramma umano che vive sotto il sole Dan Carter, mediano di apertura neozelandese, l’unico che - forse per castigo - ieri indossa la maglia nera: perché Carter da una manciata di ore ha saputo che lui sabato a San Siro contro l’Italia non ci sarà, per via di una settimana di squalifica seguita ad un placcaggio troppo alto rifilato sabato scorso ad un gallese.
Si potrebbe obiettare che per uno che ha alle spalle e davanti la carriera di Carter, la partita contro l’Italia non è poi così fondamentale. Ma il ventisettenne bestione di Christchurch sembra sincero quando dice che «la squalifica non sono sicuro di essermela meritata» e che «mi dispiace tantissimo di perdere la partita di sabato». Perché forse la partita con gli azzurri anche gli All Blacks la vivono come qualcosa di speciale. Forse gli hanno spiegato che tanta gente come quella che riempirà San Siro non si era mai vista, neanche lontanamente, per un partita di rugby nell’Italia del monoteismo calcistico. Più semplicemente: riempire Twickhenham col rugby è una ovvietà, riempire San Siro col rugby è un miracolo che solo i neozelandesi potevano fare. E poi ad essere in un posto diverso dal solito, basta a farglielo capire l’allenamento di ieri mattina: non su un ipermoderno centro sportivo, ma al centro dell’Arena napoleonica, uno stadio costruito quando in Nuova Zelanda dettavano ancora legge i cannibali. Insomma Carter sembra triste davvero, e se ne sta immusonito - tra una raffica di autografi e l’altra - a calciare palloni su palloni in mezzo ai pali.
Intorno, una festa che per un altro sport sarebbe impossibile. Dei ragazzi di periferia milanese, spigliati e un po’ teppa come solo loro sanno essere («’sti figli’e bucchina me facissero un autocrafo!»), circondano gli All Blacks, scavalcano le transenne, se li portano in mezzo a loro, si fanno le foto, le ragazze se li carezzano. E loro, i bestioni, cui insieme al resto devono avere spiegato che l’Italia è fatta così, si fanno coccolare senza fare storie alla faccia del protocollo.
(*maul: schema rugbistico troppo lungo da spiegare a chi non ne sa niente).
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