Egitto, caccia al convertito «È diventato cristiano e merita di essere ucciso»

Lo ha rovinato una semplice foto, un’immagine che lo raffigura accanto a un poster della Vergine Maria e a un Vangelo, e per questa colpa deve morire. È quello che sta accadendo in Egitto, Paese arabo «moderato», a un ragazzo di 25 anni. Il caso di Mohammed Hegazy sta facendo discutere l’intero Paese. Sono in molti ad accusarlo, per prima l’università-moschea di al Azhar del Cairo, il principale centro religioso dell’ortodossia islamico-sunnita.
I guai di Hegazy sono iniziati nove anni fa, quando decise di abbandonare l’islam per diventare cristiano, più precisamente copto, e cominciò a frequentare la chiesa della sua città, Port Said, lungo il canale di Suez. Da allora la sua vita è stata un inferno. L’Egitto è tra i Paesi a maggioranza musulmana in cui è obbligatorio indicare la voce «religione» nei documenti d’identità. I problemi arrivano quando un musulmano intende cambiare religione. L’islam non prevede l’abbandono e chi lo fa compie il reato di apostasia. In Paesi come l’Arabia Saudita, il Pakistan o l’Iran si è puniti con la condanna a morte. Ieri a Teheran un uomo è stato arrestato e rischia l’impiccagione perché trovato in possesso di una copia del Vangelo.
Non è il caso dell’Egitto, dove però la religione islamica è, per Costituzione, la fonte principale dell’ordinamento giuridico e accanto ai tribunali civili ci sono quelli coranici che applicano la Sharia. A questo si aggiunge un serio problema burocratico: chi si converte e non vuole più essere seguace di Allah si ritrova con i documenti che dichiarano il falso. Bisogna allora scegliere se lasciare le cose come stanno e vivere una vita a metà o tentare una missione impossibile: chiedere il riconoscimento giuridico della conversione. È quello che sta facendo Hegazy, che da anni sta portando avanti una battaglia contro lo Stato egiziano. È la prima volta che nel Paese viene richiesto di aprire una causa legale per questo motivo. La sua volontà non si è fermata né di fronte alle torture inflittegli ogni volta che è stato messo in carcere - la prima quando l’apostasia fu scoperta - né davanti alle fatwa, gli editti religiosi coranici con valore di legge, che chiedono la sua testa. Le ragioni di tanta determinazione le racconta lui stesso: «Voglio essere un esempio per tutti coloro che decidono di abbandonare la religione islamica e hanno paura di dichiararlo pubblicamente - ha spiegato con orgoglio -. E poi voglio sposarmi in chiesa, poter dare a mio figlio un nome cristiano e battezzarlo senza correre i rischio di essere arrestato».
Hegazy tra pochi mesi diventerà papà, sua moglie è al quarto mese di gravidanza, e vorrebbe coronare il sogno d’amore davanti a un sacerdote. Lui e Zeinab sono stati obbligati a sposarsi con rito musulmano perché sui loro documenti così è ancora scritto, pena un matrimonio nullo.
Oggi Hegazy è costretto a nascondersi in un luogo segreto e vivere in clandestinità perché la sua situazione, negli ultimi giorni, si è ulteriormente aggravata. A complicare le cose è stata la fotografia che lo ritrae insieme con la moglie accanto a un manifesto della Vergine Maria e a una copia del Vangelo all’interno di un centro di preghiera copto. L’immagine ha fatto il giro del mondo su internet ed è arrivata anche ai fondamentalisti islamici in patria e all’estero. Immediatamente gli sono piovute addosso minacce di morte e fatwa che chiedono il suo «sangue traditore».
Il verdetto più duro è arrivato dal più importante centro sunnita, l’università-moschea di al Azhar del Cairo, definita il «Vaticano dei musulmani». Così Soad Saleh, il preside della facoltà di Scienze islamiche, ha commentato la vicenda: «Chi rinuncia all’islam è un apostata e merita di essere ucciso - ha detto senza giri di parole -, tanto più se ci si vanta facendosi fotografare con la moglie vicino al Vangelo». Una sentenza di morte senza appello, considerato il seguito che questa istituzione ha nel resto del Paese e del mondo islamico.

Una doccia fredda in chi aveva creduto nelle parole del Gran Muftì d’Egitto, Ali Gomaa, che aveva parlato di conversioni come «atto libero e personale». Una sconfitta per la comunità copta d’Egitto, una «minoranza» religiosa di otto milioni di persone.

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