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Elogio del calcione che cancella incubi e ingiustizie

Totti non è un impulsivo, il suo è il gesto liberatorio di chi non ne può davvero più

Francesco Totti è un campione di immensa qualità calcistica. Dopo il calcione rifilato a Balotelli nella finale di Coppa Italia è sotto accusa, ruvidamente, con processi sommari come siamo ormai serenamente abituati in questo Paese (perdiana, abbiamo anche la prova televisiva), quasi dovunque. Io lo difendo. Non solo per stima e simpatia. Ma anche perché il suo calcione è un gesto liberatorio nel quale chiunque di noi, senza ipocrisie, si può immedesimare. Assolvendo lui, assolvo tutti noi in analoga situazione, assolvo comunque in primo luogo anche me stesso: perché la tentazione di dare un calcione come quello di Totti l’ho provata pure io, e più di una volta. Un elogio del calcione? Sì, proprio o quasi così. E tuttavia sia chiaro che capisco bene i motivi per i quali Totti è considerato, a gran voce, indifendibile. È il capitano della sua squadra, è un campione del mondo, è un giocatore amato e popolare: è questo il modo di dare l’esempio? La partita era ormai finita: perché dunque quella violenza, forse c’è una sfumatura di razzismo nel calcione al ragazzo di colore nero?
So bene, anche, che Francesco non è difendibile con l’ipotesi di uno scatto impulsivo di nervi. «Ha perso la testa per un attimo», ha detto qualche telecronista, hanno scritto alcuni giornalisti, dicono i tifosi sconcertati, che gli vogliono bene, a prescindere. Macché. Totti è un giocatore che tiene in modo perfetto il controllo dei nervi. Posso anche portare una piccola testimonianza personale: una volta, durante una vacanza in Sardegna, stavamo giocando a poker all’aperto, intorno a noi tavolini affollati... All’improvviso, una imprevista e rumorosa apparizione di un topo o di un pipistrello: le signore urlarono istericamente, i giocatori di poker si scomposero, Totti impassibile... e, se ricordo bene, rilanciò e vinse pure il piatto.
No, Totti va difeso semplicemente perché ha tirato, consapevolmente, quel calcione che è appostato anche in noi, in un cono d’ombra, in agguato ma pronto a scattare, per mille motivazioni, e però non scatta mai, o quasi mai, rarissimamente (per fortuna, lo ammetto), per educazione, o per paura fisica, o per il complesso di esporci a una figuraccia. Quando non se ne può proprio più. Nella nostra vita comune d’ogni giorno, quando il bullo arrogante ti brucia il parcheggio che ti spetta, fai la coda e ti trattano come un questuante, la banca ti strozzina, l’automobilista a fianco ti fa le corna, al bar ti fregano con il resto o ti danno un caffè ciofeca, incassi la busta paga ed è sempre più decimata dalle tasse... eccetera eccetera. Ma quando, quando e come può succedere che un giocatore-idolo come Totti, coccolato dappertutto, estraneo alle miserie e ai fastidi di una vita qualsiasi, come può succedere che anche lui non ne possa più? Francesco è un uomo che adora la sua città e ama la sua squadra. Roma, la Roma e lui sono un unicum e una cosa sola. Per questo motivo non ha mai voluto trasferirsi altrove. E per questo motivo ha vinto certo, ma poco, molto poco, in relazione alle sue qualità. Nella finalissima con l’Inter, la prima delle due sfide infinite del rendiconto finale di quest’anno (quando lo scudetto, salvo miracoli, è già sfumato), Totti per un tempo in panchina (con una sofferenza visibile, senza neanche lo sfogo dell’adrenalina del calcio giocato) e per un tempo in campo ha avvertito l’inesorabile, crescente supremazia dell’Inter dominante, tatticamente più astuta, fisicamente più potente. E ha avvertito come uomo e come campione, e oserei dire come bravo giocatore d’azzardo, che anche la fortuna gli era contraria, la sconfitta maturava minuto dopo minuto. Ed ecco quel Balotelli che provoca e insulta (come Poulsen, in Portogallo). Quel ragazzo strafottente. No, non ne posso più. Sono alla fine della carriera, e tante volte mi sono rassegnato, orgoglioso, col sorriso sulle labbra, soddisfatto delle qualità che tutti mi riconoscono. Ma tante volte sconfitto. Perdente. Con una squadra raramente all’altezza. Sono stanco, stanco. Il mister mi ha messo in panchina e mi ha impedito di giocare mezza partita. Gli avversari mi irridono e la coppa sarà loro. Basta! La misura è colma. Non sono al tramonto!
Quel calcione che digrigna e urla dentro di noi è lì, pronto a colpire. Non voglio far male, no. Ma non ne posso più. Con un calcione cancello per un momento incubi, ricordi, spettri, amarezze, ingiustizie. Bisogna solo avere il coraggio di tirarlo, e io questo coraggio ce l’ho.

Sotto gli occhi di tutti.

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