Negli ultimi decenni la musica popolare made in England ha prodotto tre gruppi generazionali, amatissimi dai 15-30enni nelle rispettive epoche: gli Smiths negli anni Ottanta; gli Oasis negli anni Novanta; e gli Artic Monkeys negli «orribili» Anni Zero. Questi ultimi sono originari di Sheffield, e fanno in quattro appena 95 anni. Non c'è perciò da stupirsi se il cantante-chitarrista-compositore Alex Turner, l'altro chitarrista Jamie Cook, il bassista Nick O'Malley e il batterista Matthew Helders, attesi da un PalaSharp di Lampugnano tutto esaurito martedì sera (si parte alle 21), sono stati definiti i ragazzini terribili del rock d'Oltremanica. Va da sé che l'esplosione del quartetto è legata a Internet. Non appena la band ha organizzato i primi concerti, in Rete è subito spuntato un sito dove era possibile scaricare gratuitamente gli mp3 dei loro pezzi, insieme ai testi e al calendario degli show. A far girare ulteriormente il nome ci hanno poi pensato un paio di blog. Risultato: a ogni nuovo live si presentava sempre più gente sotto il palco. E tutto questo è avvenuto molto prima di avere un disco nei negozi. Quando poi uscì (nel 2006) l'album di esordio «Whatever people say I am, that's what I'm not» (oltre 360 mila copie vendute nella prima settimana, meglio dei Beatles!), un nervoso, ma gradevole concentrato di indie rock e post-punk danzereccio incentrato sulle chitarre elettriche, ecco la definitiva consacrazione. I loro punti di forza? Una sezione ritmica dinamica e flessibile, una spanna sopra tutti gli altri; melodie e riff orecchiabili sì, ma che ti coinvolgono fisicamente; e testi che vogliono dire qualcosa (specchio fedele e iper realista della filovia di vita dei giovani dell'Inghilterra contemporanea).
Riposare sugli allori? Non se ne parla proprio.
Gli enfant prodige del rock inglese
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