Massimo Restelli
da Milano
Lo Stato non potrà più utilizzare Eni ed Enel per fare cassa, pena lo spettro di una scalata che farebbe perdere il controllo dei due campioni dell’energia nazionale. Davanti alle Commissioni finanze di Camera e Senato il ministro dell’Economia, Tommaso Padoa-Schioppa frena sul capitolo dismissioni visto che nel caso di Enel ed Eni il peso della mano pubblica ha raggiunto un livello sotto il quale si profilerebbe il «rischio» di un’Opa da parte dei principali concorrenti.
Parole accolte in Piazza Affari senza particolari sussulti (Eni ha terminato in flessione dello 0,48% ed Enel dello 0,73%) visto che la partecipazione dello Stato unita a quella della Cassa Depositi e Prestiti è in entrambi i casi prossima al 30% del capitale. Quota che mette al riparo da eventuali attacchi, perché sufficiente a bloccare i lavori delle assemblee straordinarie da cui dovrebbero passare eventuali operazioni mirate a ribaltare gli attuali equilibri azionari.
Dal 1993 al 2005 lo Stato ha incassato complessivamente 96 miliardi ma, secondo Padoa-Schioppa, la lunga stagione in cui privatizzare le aziende pubbliche imposta dall’urgenza dei conti «è finita». Entrando nel dettaglio in dodici anni ci sono state 46 operazioni che hanno coinvolto 28 aziende portando lo Stato fuori dal settore bancario, assicurativo, delle telecomunicazioni e dei tabacchi, oltre a ridimensionare energia e difesa. «Considerando il risparmio di interessi sul conseguente minore stock di debito (circa 28 miliardi cumulati al 2005) il beneficio ammonta a circa 125 miliardi», ha stimato il ministro. Con un rapporto debito/Pil che lo scorso anno ha raggiunto il 105,4% rispetto al 121% registrato nel 1994.
Calcoli che Padoa-Schioppa ha arricchito con constatazioni sul fatto che a differenza degli anni Cinquanta, oggi bisogna mettersi nell’ottica di un sistema di concorrenza «all’interno di un’economia aperta». Assolto, in ogni caso, il sistema delle partecipazioni statali per il ruolo svolto nello sviluppo del Paese.
Guardando al futuro il ministro ha ammesso «la possibilità» che anche Poste Italiane o le Fs si aprano agli investitori. Questo si tradurrebbe non soltanto in maggiori incassi per lo Stato ma introdurrebbe una «ulteriore logica di conformità al mercato e di governo delle imprese che può essere positiva», anche se «pensare a una privatizzazione completa è molto più complicato». Stessa conclusione per Cdp così come per Eni e Finmeccanica.
Illustrando le linee programmatiche del proprio dicastero, il ministro ha poi rinnovato l’allarme sui conti pubbici e sottolineato l’importanza del Cicr, il comitato che rappresenta la longa manus dell’esecutivo incaricata di vigilare sul credito insieme a Bankitalia. Promosse anche le funzioni di controllo esercitato dal Tesoro sulle Fondazioni, cui continua a fare capo gran parte del sistema creditizio nazionale, a partire dai quattro protagonisti dell’atteso risiko bancario: da Intesa a Unicredito, da San Paolo al Monte dei Paschi.
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