Epifani e Di Pietro, i nuovi bulli della sinistra

Epifani, una persona naturalmente elegante, si è trasformato in un bullo politico. Il bullismo va di moda. Politicamente il bullismo affiora quando c’è una vacanza di leadership. Due, infatti, sono le regole più rozze e tuttavia valide della politica

Epifani e Di Pietro, i nuovi bulli della sinistra

Epifani, una persona naturalmente elegante, si è trasformato in un bullo politico. Il bullismo va di moda. Politicamente il bullismo affiora quando c’è una vacanza di leadership. Due, infatti, sono le regole più rozze e tuttavia valide della politica. La prima è che quando la nave affonda i topi fuggono. La seconda che, quando mancano i leader, affiorano gli «hombres fuertes» che gonfiano i muscoli e incarnano la figura dell’intransigente puro e duro, quello che non molla.
Così capita che il leader della Cgil Guglielmo Epifani stia dando in queste ore entrambi i segnali: della barca che affonda e dell’uomo forte, ovvero del bullo politico che non esita a minacciare l’unità sindacale pur di mettersi di traverso da solo ed emergere come un leader politico, anziché sindacale.
All’origine c’è la questione della regolamentazione del diritto di sciopero come prescritto dalla Costituzione, cui l’attuale governo intende porre mano a cominciare dal settore dei trasporti per ridurre fra l’altro il ruolo di vittime sacrificali dei cittadini quando vengono triturati al tritacarne dagli scioperi dei trasporti. Raffaele Bonanni, segretario della Cisl, ha dato segni di irritazione: «Epifani da un po’ di tempo è latitante, preferisce stare sul monte a criticare tutto». Bonanni accusa Epifani di gridare al lupo quando il lupo non c’è e di mancare agli incontri sia con gli imprenditori che col governo. Ma Epifani ha deciso di fare del suo grido «al lupo, al lupo» lo slogan della Cgil perché, come titolava ieri un giornale che lo intervistava, «teme svolte autoritarie contro la libertà dei lavoratori». L’idea forte dell’uomo forte è che l’attuale governo Berlusconi non sia un governo soltanto «di destra», e cioè prediliga soluzioni gradite alla maggioranza che lo ha votato, ma che vada verso scelte autoritarie, il che è demenziale, più che arbitrario.
Naturalmente il governo, che ha molti difetti e noi non gliene perdoniamo uno, non ha finora fatto altro che proporre di attuare un articolo della Costituzione che era stato ibernato col tacito accordo, anzi con l’esplicito accordo, di Dc e Pci in nome del consociativismo. Oggi questi due soggetti sono spariti e una nuova fase storica, piaccia o non piaccia, è in corso in questo momento storico sancito finora dal consenso popolare e che difficilmente, per non dire cinicamente, si potrebbe definire autoritario. Ma queste, in fondo, sono chiacchiere.
Ciò che a noi sembra di vedere chiaramente in questa presa di posizione sindacalmente aventiniana di Epifani è la crisi irreversibile del Pd, ormai alimentato col sondino. Epifani sta di fatto colpendo il ventre molle di quel che resta del corpo comatoso del partito, e cioè quell’area riformista e giuslavorista che è sempre stata l’obiettivo di strali sindacali e pallottole dei brigatisti rossi, arrivati alla loro terza generazione. E infatti il linguaggio stesso di Epifani puzza di condiscendenza verso quell’area eversiva che ha sempre lambito il suo sindacato e dalla quale la Cgil non ha mai saputo realmente prendere le distanze, salvo che di fronte a episodi criminali e di sangue. Infatti Epifani dice al governo che deve «stare attento», espressione che appartiene da decenni a quell’area politica che è passata dalle armi della politica alla politica delle armi. Questa commistione, questa comunione, questa confusione è una grave colpa politica, vorremmo dire ad Epifani, e un’arma proibita anche in un periodo di sede vacante nella sinistra politica.
L’operazione inaccettabile di Epifani secondo noi consiste, infatti, proprio in questo: nel tentativo di trasferire sul terreno del confronto naturale e fisiologico fra sindacati e governo la crisi mortale della sinistra rappresentata dal Pd, incapace persino di fare la cinghia di trasmissione. Poiché il Pd è al testamento biologico e non si sa se sarà rianimato o se qualcuno gli staccherà la spina, ecco che appaiono sulla scena politica i due dioscuri della mitologia politica: Antonio Di Pietro e Guglielmo Epifani, l’uno e l’altro con la ferma e non del tutto ingiustificata intenzione di riempire un vuoto, ma entrambi prigionieri di uno stesso ruolo che è proprio quello dell’«al lupo, al lupo».
Fragili politicamente, sia Epifani che Di Pietro cercano di rinforzarsi a quella che a loro sembra la fonte dell’eterna giovinezza politica: l’attacco cieco, persino ridicolo, al governo. Non per criticarne i limiti, le prospettive, le politiche, ma per indicarlo come un governo golpista o poco meno che golpista. Questa dovrebbe essere un’arma proibita dall’etica comune, in assenza di qualsiasi segnale che possa suffragare l’ipotesi di un governo golpista. E questa arma proibita viene usata proprio per mascherare, con un’operazione forzuta e bullistica, l’assenza di una linea politica, l’assenza di una idea politica di opposizione, cavalcando invece i destrieri dell’apocalisse e seminando il terrore.
Per amor di completezza voglio aggiungere che quel che accade con le sortite ora di Di Pietro e ora di Epifani, è fisiologico: o meglio, sgradevole, molto sgradevole ma anche inevitabile perché il vuoto che sta lasciando il Pd con la sua assenza politica, dopo un lungo periodo di letargo parlamentare, non può dar luogo ad altro che all’emergere di queste cisti della democrazia, il forzutismo e l’«al-lupo-ismo» se potete perdonarmi l’assurdo neologismo.

E purtroppo oggi sia il segretario generale della Cgil sia l’ex procuratore castigamatti svolgono entrambi i ruoli. Il che naturalmente è potenzialmente pericoloso per la democrazia, ma più che altro letale per il corpo moribondo e acefalo dell’opposizione democratica, la cui asfissia è la causa di questi tristi fenomeni.

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