Quando i cellulari erano pressoché sconosciuti, Guglielmo Epifani ne possedeva già uno. All'epoca era un sindacalista di medio calibro, ancora lontano dalla segreteria generale della Cgil. Un giorno ammannì un arioso discorso a un'ampia platea. La sua voce educata di romano senza inflessioni stava dolcemente addormentando gli uditori allorché il telefonino cominciò a squillare. Mentre l'oggettino gli ballonzolava impazzito nella tasca, i trilli amplificati dal microfono investirono la sala. «Drinn, drinn», ululava il cellulare prigioniero del calzone. La folla si risvegliò impaurita per quel suono ignoto che pareva venire dalla viscere della terra. «Che diavolo succede?» rumoreggiò la prima fila, trasmettendo il panico alle altre. I più anziani andarono col ricordo agli allarmi del tempo di guerra. L'unico impassibile nel trambusto generale era Guglielmo. Accennò solo a una grattata di capo. Ma lieve, per non scompigliare la scriminatura. Con perfetta faccia tosta continuò a parlare, sperando che la gente non capisse che il suono usciva da lui. Era in realtà al colmo dell'imbarazzo, ma non sapeva come uscirne. Avrebbe potuto comportarsi con più naturalezza: rispondere al telefonino o spegnerlo, oppure mostrarlo ai presenti spiegando con un sorriso che, prima o poi, lo avrebbero avuto anche loro. Epifani invece fece il nesci. E in questo fare il nesci c'è tutto Epifani.
Attualmente, il Nesci ha un grattacapo. È incerto se la Finanziaria sia un bidone o no. La faccenda lo preoccupa di persona perché l'ha fatta lui a quattro mani col ministro dell'Economia, Tps, e da questo concorso di cervelli sono nati tagli e tasse. Varata la legge, Epifani si è detto molto soddisfatto del risultato. Ma subito sono nati i pasticci. I tagli agli enti locali non sono piaciuti ai sindaci di sinistra, ossia agli amici stretti del Nesci. Il sindaco di Roma, il ds Walter Veltroni, ha fatto sapere che si sarebbe rifatto raddoppiando le tasse comunali. Idem il sindaco di Bologna, il ds Sergio Cofferati, detto il Cinese per l'aria da Mandarino del Celeste impero.
L'annuncio ha lasciato di stucco Epifani. Le nuove tasse infatti divoreranno i micragnosi benefici fiscali previsti dalla Finanziaria per le rendite basse. E lui, che li aveva sbandierati, ci farà la figura del pirla. Una bricconata che da Sergio non si aspettava. I due sono compari di vecchia data. Quando Cofferati era il capo della Cgil, Guglielmo era il suo vice. Fedele, obbediente, mai un attrito. Al punto, che il Cinese lo designò suo successore. Ma la faccenda delle nuove tasse mandava tutto all'aria.
Messo alle corde, Epifani ha reagito. Ha detto che non si possono tartassare i bolognesi per compensare i minori introiti statali. Non è giusto, non è di sinistra, non è solidale. Il Cinese gli ha risposto a brutto muso: «Se la Finanziaria fa ribrezzo è colpa tua. Tu hai tagliato i fondi. Tu mi costringi a nuove tasse. Se invece di vantarti di avere scritto questo scarabocchio a quattro mani con Tps, avessi controllato il ministro, non saremmo a questo punto». Più che uno sfogo, una lezione di etica sindacale: la Cgil non deve partecipare al governo; suo compito è tampinarlo. Ecco perché ora Guglielmo è sulle spine. Teme che le magagne della legge, ricadano su di lui che l'ha voluta. Ma nel profondo, è tranquillo. Conosce le sue attitudini anguillesche. Se le cose si metteranno male, farà quel che fece col cellulare. Si sfilerà, facendo il nesci.
Fare finta di nulla è nella natura di Epifani. Se le circostanze cambiano, si adatta al nuovo senza rimpianti per il passato. Ne ha dato maiuscola prova nell'ultimo decennio.
Fin da quando entrò ventiquattrenne nella Cgil, spartita tra Pci e Psi, Guglielmo fece parte della pattuglia socialista. Fu socialista di sinistra quando il Psi era in mano a Francesco De Martino, stretto sodale dei comunisti. Divenne invece craxiano, appena Bettino Craxi conquistò il partito. Fu con lui, cuore e cervello, quando pretese il taglio della scala mobile, col celebre decreto di san Valentino dell'84. Il provvedimento divise la Cgil. I comunisti erano ferocemente contro, i socialisti pro. Epifani più pro di tutti, scavalcando anche l'altro cgiellino del Psi, Ottaviano Del Turco, che cercava di mediare. Cambiò invece casacca all'istante, con lo tsunami del Psi di Tangentopoli. Mentre il partito affondava, voltò le spalle ai naufraghi consegnandosi mani e piedi al Pci-Pds-Ds trionfante. Puntò sullo zelo per fare dimenticare il suo passato. Non solo si iscrisse nei Ds, ma traghettò in massa i socialisti della Cgil nel partito che fu di Palmiro Togliatti, buttando a mare chi non ci stava.
Impressionato dal funambolismo del Nesci, Max D'Alema gli offrì nel 1998 il settore organizzazione ds, posto riservato ai fedelissimi. Guglielmo declinò l'invito. Non però per decenza. Ma per non perdere il treno della segreteria generale cigiellina. Quando Cofferati lo cooptò come vice, cercò di compiacerlo con tutta l'anima per propiziarsi la successione. Così, si intruppò nel «correntone» cui apparteneva il Cinese, aggregandosi ai più sinistri ds, i Folena, i Mussi, i Salvi.
A coronamento di questi sforzi eroici, il voltagabbana ha ottenuto nel 2002 lo scettro del sindacato comunista. Così, sorte birbante, colui che più degli altri volle nell'84 il taglio della scala mobile vilipeso dalla Cgil ne diventava il capo. Ora, la governa come Romano Prodi l'Unione: dando spazio e voce ai sinistri più radicali. Ha una segreteria che è un matriarcato ds. Dei suoi nove più stretti collaboratori, cinque sono donne. Tra esse spicca la terribile Marigia Maulucci, occhialuta pasionaria dell'antiberlusconismo. Quando c'era il Cav al governo, Marigia lo vituperava tre volte al dì con strazianti urla di dolore. Il più memorabile: «Gli italiani impoveriti risparmiano su pane e latte. I ricchi raddoppiano i consumi di champagne».
Il Nesci è un cinquantaseienne di onesta famiglia. Mamma salernitana, papà umbro. Giuseppe, il padre, era un dc di fede fanfaniana. Fu nel dopoguerra sindaco di Cannara, cittadina nei pressi di Spoleto, l'antico ducato longobardo. L'origine lanzichenecca spiega anche il nome tedeschizzante del nostro Guglielmo. Il bebè vide la luce a Roma, ma a tre anni seguì la famiglia a Milano. Tornò nella capitale a 15 anni. Qui frequentò il Liceo Orazio, al Talenti dove abitava, un quartiere a nord della città, sorto negli anni '60. Era una perla di adolescente. Nel tempo libero, faceva il buon samaritano come ha spesso raccontato strizzando l'occhio ai cattolici. «Non sono mai stato giovane. Da ragazzo facevo il doposcuola nelle borgate romane, l'assistenza agli anziani. E dopo la maturità, come premio, andai studiare a Parigi, mentre i miei compagni partivano per l'isola di Wight». Wight, per chi non lo sapesse, era il luogo prediletto dei capelloni. A Parigi andò perché gallica è la cultura di famiglia. Il babbo era laureato in letteratura francese e Guglielmo è un cultore di Baudelaire. Dice di avere tradotto «Les fleurs du mal», fatica di tutto rispetto che da sola giustifica i grossi occhiali che inforca. L'amore per la Francia lo ha spinto ad acquistare casa a Parigi coi grami proventi della sua attività sindacale che, a suo dire (ma è da verificare), ammontano a duemila euro il mese. Fortuna che a dargli una mano, c'è la moglie Giusy, medico dell'Inail. I due si sono conosciuti sui banchi dell'Orazio, sono sposati da 38 anni e non hanno figli.
Ottimo liceale, il Nesci fu un babà di universitario. Laureato in storia con una tesi su Anna Kuliscioff, moglie del riformista Turati, vinse una borsa di studio. Fu due anni assistente, prima di sentire prepotente la vocazione del sindacalista. Entrò nella Cgil, iniziando una carriera coi fiocchi ai piani alti. Divenne paladino dei diritti dei lavoratori senza avere mai lavorato. Non fu mai operaio, impiegato, piazzista. Né il tornio, né le scartoffie ne hanno avvilito gli anni verdi. Tra i segretari generali è un unicum. Prima ancora di approdare alla Cgil si era iscritto ai giovani socialisti della Fgsi, nella stessa sezione romana che vide fiorire l'attuale capo della Rosa nel Pugno, Enrico Boselli, il futuro direttore dell'Avanti, Roberto Villetti, il mitico «mitraglietta», alias Enrico Mentana.
Pare che in quei primi anni da sindacalista, Guglielmo fosse un tombeur de femmes. Le segretarie lo trovavano spiccicato a Indiana Jones, per cui fu a lungo additato come l'Harrison Ford della Cgil. Oggi è fatalmente invecchiato e i capelli diradati sono affidati alle cure di Pino il suo barbiere di via Piemonte, che già pettinò Fellini e che ora si ingegna a miracolare lui col riportino.
Il primo incarico che gli affidò la Cgil fu la direzione dell'Ediesse, le pubblicazioni librarie del sindacato. Ruolo perfetto per uno studioso dalle dita curate. Ma il giovanotto fremeva per affondarle nel corpo vivo della trattativa sindacale tra fumo, liti e interminabili riunioni. Fu accontentato con cautela, perché sempre di un fine intellettuale si trattava. Così, entrò nel sindacato soft dei poligrafici in cui restò undici anni, dal '79 al '90, fino a diventare segretario generale della categoria. Dette prova eccellente. Guidò il passaggio dalle telescriventi al computer. Innovò il settore, contenendo i licenziamenti.
Erano gli anni ruggenti del craxismo. Guglielmo non perdeva un congresso del Psi. Si spellò le mani per Craxi e fu visto correre al palco a abbracciare Claudio Martelli per qualcosa di alato che il Delfino aveva detto. Si dava per certo, che Epifani avrebbe lasciato il sindacato per entrare in politica.
Poi, voltò la gabbana e divenne il Nesci.
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