Era la «Fachinada» a scaldare le giornate più fredde dell’anno

Giorgio Caprotti

Il coinvolgente progredire del traffico cittadino e adattamento urbanistico, oltre al mutamento sempre più globalizzato dei costumi, hanno portato al logico allontanamento dalle tradizioni, se non alla loro soppressione. A volte ne resta il rimpianto in quanto cancella la storia locale, culto così vivo nei nostri avi, anche per le poche distrazioni in quei tempi, che erano persino giunti all'accortezza di insegnare ai bambini divertenti filastrocche, spingendoli a chiedere di chiarirne gli eventuali significati nascosti. E così, fra leggenda e realtà, si cominciava a dar loro un'imbeccata di quell'istruzione che oggi parrebbe quasi mancare: dalla curiosa conferma di certe popolari dicerie alle basi storiche del nostro passato.
Ad esempio il 29, 30 e 31 gennaio, ritenuti come i più freddi dell'anno, sono passati alla storia come «i dì della merla», grazie alla favola della merla bianca che si annerì rifugiandosi nel fumo di un camino. Ma un fatto storico era realmente accaduto a Milano in un lontano, freddissimo 29 gennaio. Un episodio così tragico e toccante che fu poi commemorato, nella ricorrenza annuale, addirittura per secoli, con la famosa sfilata dei facchini in costume, la «Facchinata». Sfilavano fra due ali di folla recando orci d’olio combustibile e fasci di candele, sufficienti ad illuminare per dodici mesi la cappella di Sant’Aquilino nella chiesa di San Lorenzo. Ma come nacque la devozione a questo santo che i facchini elessero poi a loro protettore?
Aquilino era nativo della Boemia ma si era rifugiato qui, poco prima che scoccasse il 1100 e aveva iniziato a predicare. E qui ecco saltare fuori la storia cittadina dei facchini, quasi tutti giunti dal lago Maggiore e primi a costituirsi in una corporazione o badìa, con sede nello scomparso vicolo cieco dei Facchini, traversale dell'attuale via Manzoni, di fronte al «violìn» (così era chiamata la chiesa di San Francesco da Paola, per la sagoma della sua sinuosa gradinata d'ingresso). Erano riconoscibili per la loro blusa grigia rigata e la targa d'ottone numerata sul petto, con in spalla sacco e corda con la fusella (un pratico legnetto triangolare di fermo).
Percorrendo, nel recarsi al lavoro dalla via Lupetta, in una nebbiosa alba di gennaio il fitto bosco che si dipartiva dalla chiesa, i facchini incapparono inorriditi nel corpo straziato del predicatore, già aggredito dai manichei, una delle battagliere sette eretiche di allora. Accorati, lo trasferirono in San Lorenzo. L'arcivescovo lo fece sistemare nella cappella della Regina, così detta perché approntata secoli prima per Galla Placidia, figlia dell'imperatore Teodosio, poi sepolta a Ravenna nel 450.
Fu così che quella divenne l'attuale Cappella di sant'Aquilino e i facchini da quel momento videro in lui il loro protettore e pensarono di provvedere alla sua illuminazione permanente portandovi in gran corteo, ogni 29 di gennaio, le scorte d'olio per le lampade e le candele per un anno.
Come accade sovente però, assolto il compito sacro, la «Fachinada» finiva nel profano con l’invasione di osterie e trattorie di tutta la zona Ticinese, fra baldorie, canti e «bosinate», recitazione di poesie spontanee in cui la metrica c’entrava fino a un certo punto lasciando invece ampio spazio a lazzi, prese in giro e ironia.


Proprio una vera «fèsta in borgh» ma chi oggi se la ricorda più? Eppure la basilica di san Lorenzo è ancora lì, con la sua bella cappella di sant'Aquilino, intrecciata con la storia di Galla Placidia, e la statua in bronzo di Costantino il grande (copia dell'originale a Roma in san Giovanni in Laterano), che qui liberalizzò il cristianesimo il 13 giugno del 313.

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