Era il grande genio del realismo magico. Ma nessuno lo sa

I dipinti di Andrew Wyeth sono più veri del vero. Ma la critica, modaiola, ha ignorato la sua tecnica superba. Non voleva piegarsi alle mode e ridurre l'arte alla sola provocazione. Definito, a torto, un illustratore o addirittura un pittore privo di ricerca

Era il grande genio del realismo magico. Ma nessuno lo sa

Per Germano Celant, Achille Bonito Oliva, Angela Vettese e molti altri che hanno preteso, in questi anni, di documentare le esperienze più significative dell’arte contemporanea, probabilmente la morte di Andrew Wyeth non ha alcun interesse come d’altra parte non è d’alcun interesse la vita. E meno ancora l’opera.
Chissà se mai i loro occhi sono stati stimolati da qualche immagine dei suoi quadri che rappresentano l’approdo più radicale della pittura figurativa del nostro tempo.

Realismo? Forse. Ma certamente una consapevolezza e una abilità senza eguale soprattutto nel disegno, probabilmente per una assoluta immedesimazione con l’impresa del padre, famoso illustratore e del grande Norman Rockwell. Sentendo così forte l’urgenza della realtà, Wyeth predilige esprimersi con acquerelli e tempere che consentono una maggiore leggerezza. Ne deriva una specialissima essenza di realismo magico, soprattutto in soggetti di paesaggio, di vaste campagne e del mare fra il litorale del Maine e la Pennsylvania. Questi luoghi incantati, di natura incontaminata sono animati da alcune presenze umane e, in particolare, quella ossessiva di Helga Testorf la modella che dal 1971 al 1985, Wyeth dipinse 240 volte, come testimone di una contenutissima e insieme dirompente passione. Un’esperienza intima e, al tempo stesso, esibita per necessità d’arte.

Wyeth ha davanti una modella paziente disponibile all’incantamento in tutte le variazioni possibili. Sola, in mezzo alla natura minacciosa, distesa su un letto, davanti all’orizzonte. Tutto il mondo sembra risolversi in lei che posa per l’artista all’insaputa del proprio marito e della moglie di Wyeth. E in questo silenzio, in questo mistero c’è una concentrazione formidabile, un assoluto. Da questa situazione estatica deriva la pressoché unica sensazione di realismo magico, di perfezionamento del reale che rende l’opera di Wyeth non surrealista e non iperrealista.

Davanti ad ogni opera di Wyeth la realtà appare inadeguata come se all’artista toccasse dotarla di anima in ogni particolare così il legno diventa essenza del legno, l’erba essenza dell’erba, il cielo essenza del cielo. Un potenziamento del reale.
Ora Wyeth, pittore registrato tra gli esponenti della pittura «regionalista» americana è morto, a Philadelphia, ma se dovessimo cercarne traccia negli scritti dei critici di arte contemporanea, resteremmo delusi. Perché Wyeth era solo un pittore; e quindi dipingeva. Non ha mai pensato di farsi riconoscere con imprese sorprendenti o con provocazioni. Ha semplicemente manifestato le proprie doti. Così qualcuno ha potuto scambiarlo per un illustratore e con ciò relegarlo in una condizione di minorità subalterna.

Un modo per liberarsi dell’autore scomodo. Così, in Italia, se ne è letto un necrologio sul Corriere a firma di Stefano Bucci. Se ne parla quasi per giustificarlo della sua straordinaria abilità, come di «un pittore senza ricerca» in un’epoca in cui la mano, la buona mano sembra una colpa perché l’arte si fa soltanto con la testa, con le idee. Come se dipingere bene non fosse una buona idea. Così Wyeth non è stato percepito come il pittore più grande del mondo, se non per ciò che della pittura non interessava più. Ed egli invece la praticava nella tradizione antica delle famiglie, pittore il padre Newell Convers, pittore il fratello Nathaniel, pittrice la sorella Henriette, pittori i figli Jamie e Nicholas. Nell’esperienza di questa grande famiglia c’era lo spirito del rinascimento americano, del grande respiro della pittura americana di paesaggio, di Church o di Homer. All’opposto della Pop Art la pittura di Wyeth è stata pittura di natura più adatta alle anime semplici che agli intellettuali.

Oggi ci rendiamo conto che, per ripetitive immagini di Marilyn Monroe o di Campbell Soup, icone di un’epoca demente, e per i fumetti meccanici di Roy Lichtenstein abbiamo rinunciato alla infinita varietà di immagini di questo artista straordinario, popolare in America come lo sono stati i Macchiaioli da noi in una dimensione diminutiva, popolare, amatoriale.

È stato giusto così? O abbiamo cercato di

fargli pagare la sua ostinazione a non adeguarsi, a non accettare che l’arte contemporanea debba essere la negazione della varietà e della qualità senza vita e senza anima. Weyth se n’è andato ma gli sconfitti siamo noi.

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