(...)E, invece, non solo era una penna di razza, ma proprio un uomo da prima pagina. Un titolo vivente, una notizia con la sigaretta tra le dita. Gianfranco Funari lo sapeva bene. E lha saputo anche ieri, morendo a 76 anni in una stanza del San Raffaele per problemi cardiaci e polmonari. Scegliendo per andarsene un sabato di metà luglio, quando la politica («la donna più importante che ho incontrato») si fa da parte e i politici («quelli che stanno in tivvù a tutte lore e che ci fanno la predica su tutto») sono al mare. Così ridicoli, mezzi biotti. E lui, come sempre, ne approfitta e si prende il palcoscenico tutto per sé. In questi casi, con una frase fatta, si dice che uno esce di scena. Ma per lui uscire di scena è impossibile. E infatti ecco la foto grande in copertina. Il primo servizio di tutti i tiggì. E ieri anche la prima serata sia Mediaset che Rai. Quelle che in vita non gli avevano dato e che ora che se nè andato sono costretti a non negargli più. Di lui il critico Aldo Grasso oggi deve dire che «era il vero emarginato della televisione».
Qui lo chiamavano «il romano», ma come tutti i figli adottivi era più milanese di tanti milanesi. E, infatti, qui è morto, qui ha voluto il suo funerale martedì alle 14,45 nella chiesa di San Marco e qui la giovane moglie Morena Zapparoli lo farà tumulare. Era arrivato quarantanni fa per bussare al Derby, il celebre cabaret. Spaccone. Lo avevano accolto. Era diventato uno di loro. Poi la grande televisione, la direzione del quotidiano lIndipendente e perfino la candidatura a sindaco di Milano. Poi le tivù locali. Già pronto il nuovo programma per Odeon. Il titolo? «La STORIA siamo IO». Più Funari di così. Ma gli piaceva troppo «fare le domande scomode al potente che tutti, da casa, vorrebbero fare ma che invece il giornalista di turno non fa mai». Adesso che è morto, e possiamo dirlo tranquillamente perché lui della morte non aveva paura («nella bara ricordatevi di mettermi le sigarette»), nessuno lo teme più. E tutti fan la coda per la glorificazione.
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