A giudicare dal controesodo di assassini, il nostro sistema carcerario sembra il più efficace del mondo. Ma sappiamo che non è così. C’è dell’altro. Un conto è la vera efficacia della detenzione, che riabilita e trasforma l’essere umano, riconsegnandolo alla società cambiato e migliore. Un altro conto è il lassimo e la faciloneria, la fretta di riaprire la cella in nome di un recupero buonista e compassionevole, il più delle volte però soltanto pilatesco e sbrigativo, superficiale e demagogico. Dove collocare la nostra giustizia, tra questi due poli?
Intanto va registrato il via vai. Le cronache segnalano traffico intenso in uscita. Qualcuno esce in prova, altri riacquistano una libertà più completa. Ma escono. Sono di nuovo tra noi. L’8 marzo 2010 è fuori con permesso di lavoro persino Vallanzasca, condannato a 4 ergastoli e 260 anni. Se non altro, lui di galera se n’è fatta molta. Ma sulle sue orme sono diversi gli spietati assassini che ricompaiono molto più velocemente. Da un po’ è in circolazione Pietro Maso, all’epoca autore di un massacro spietato, contro papà e mamma, per poche manciate di denaro. È di nuovo libero Omar, colpevole con la fidanzatina Erika di un delitto feroce, contro il fratellino e la mamma della ragazza, nella villetta a schiera di Novi Ligure. Anno 2001: dieci anni dopo, tutto cancellato, tutto cambiato, tutto nuovo. Esce anche lei, presto a titolo definitivo. Due persone diverse, due vite diverse, due storie diverse. E ora tocca anche a Katharina Miroslawa, la ballerina condannata nel ’93 a 21 anni e mezzo per l’omicidio dell’amante. Dopo sette anni di latitanza, finisce nella rete della nostra giustizia nel 2001, sorpresa in un appartamento di Vienna. Detenuta nel carcere veneziano della Giudecca, dieci anni dopo è già libera di lavorare in una sartoria. L’ex cappellano garantisce per lei: si è diplomata, è cambiata, ha fede, vuole laurearsi in teologia. Tanti buoni propositi hanno convinto le autorità italiane a firmarle una nuova cambiale. Presto potrà restare fuori pure la notte.
Si può spannometricamente - ma realisticamente - dire che ormai basta una decina d’anni: questa la pena vera, dura, effettiva che i peggiori criminali scontano in Italia. Dopodichè, preparano già le valigie per il viaggio di ritorno. Piccolo dettaglio: hanno reati a carico che in altri luoghi del mondo prevedono l’atrocità dell’esecuzione. Qui, dieci anni e i primi permessi, i primi lavori esterni, le prime aperture di credito. Ci si può laureare, impiegare, sposare. Giusto così?
Certo il rispetto delle vittime e di chi le ha amate merita fermezza. La prima cosa che il parente di una vittima dice a delitto ancora caldo è sempre la stessa: «Mi aspetto che almeno questo assassino sconti fino in fondo il suo castigo ». Non si può dire che dieci anni siano un castigo spietato, per gesti tanto efferati. Eppure, la vera delicatezza della materia non sta sul bilancino degli anni scontati o regalati. Sta in qualcosa di molto più complesso: dobbiamo chiederci se sia possibile che dopo un tempo così breve il crudele assassino davvero sia già una persona diversa, nuova, positiva. Magari è possibile. Ma è molto difficile accettarlo. Spaventa l’idea che questi veloci ritorni sulla fiducia finiscano comunque per togliere considerazione, peso specifico, drammaticità a un evento spaventoso come l’omicidio.
Ammazzare e tornare liberi dopo dieci anni: forse è umano e giusto così. Ma nessuno può dire che funzioni da pauroso deterrente. È più facile concludere che l’Italia sia un luogo molto conveniente, per far scorrere sangue.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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