Stefano Zurlo
da Milano
Sembra una partita fra amiche. Solo che una delle amiche, forse la più brava in campo, è un lampo di ferocia che tutti ricordiamo. Pantaloni della tuta, maglietta grigia, occhiali neri per proteggere gli occhi dal sole accecante, Erika De Nardo gioca a pallavolo nell’oratorio di Buffalora, periferia di Brescia. Soltanto tre set domenicali che valgono però come un passaporto: riconsegnano la protagonista di una delle pagine più feroci della cronaca nera alla vita normale. Niente scandali. Solo una parentesi di poche ore, ma anche la pianticella della speranza per una ragazza di solo 22 anni che rimarrà in cella fino al 2022.
Il primo giorno fuori dalla galera cade di domenica e comincia con la messa alle 9.30. Poi le sei detenute si mischiano con altrettante ragazze dell’oratorio di Buffalora e danno vita a un match senza troppe pretese. «Dài Erika», le dicono le compagne. Lei si comporta egregiamente, favorita dal fisico longilineo: una discreta dose di punti su schiacciata, alcune battute azzeccate, un tocco di palla non certo da sprovveduta: «Se avesse intrapreso la carriera agonistica - spiega Gianni Zanola, uno degli organizzatori della manifestazione voluta dall’Uisp - sarebbe stata una perfetta centrale».
Invece la vita è andata diversamente e la ragazza è uscita dalla comunità civile il 22 febbraio 2001, quando a Novi Ligure massacrò insieme al fidanzato la madre e il fratellino. Altro che sport. Sangue. Orrore. E l’ombra del Maligno.
Poi il carcere. Da qualche parte si deve ricominciare. Prima al Beccaria e ora a Verziano (Brescia). Difficile dire cosa abbiano lasciato questi cinque anni. Il rientro nel mondo, sia pure dentro il perimetro dell’oratorio e con tanti agenti intorno, avviene sul pentagramma dell’ordinarietà: Erika mette in mostra la tecnica che ha imparato in carcere, Erika dà il cinque alle compagne, Erika sorride, Erika confida alle presenti che in carcere ascolta molta musica e specifica i gusti della sua hit parade: Nino D’Angelo e Mango.
Certo, c’è un filo d’imbarazzo. Anche perché il quotidiano Il Brescia ha anticipato la notizia e a Buffalora ci sono un paio di fotografi. Ma se la cava senza problemi. E rimedia, a bassa voce, pure qualche complimento: per la bravura e per la bellezza. L’aspetto è curato, i lunghi capelli raccolti in una coda per via del match. Poi mangia, come tutti, la salsiccia alla piastra e infine si congeda alle quattro del pomeriggio con una frase che, forse, è un augurio: «Mi sono trovata bene. È stata una bella giornata».
Un’esclamazione che potrebbe essere sfuggita anche a una turista col gelato in mano e la telecamera al collo. Erika ha 22anni e in parte ha recuperato il tempo perduto. Ora a contrastare la mano omicida c’è un curriculum incoraggiante: si è diplomata come geometra, si è iscritta all’Università, incontra regolamente il padre, protagonista di un dramma biblico; di più non è dato sapere. Nessuno può dire se sia scesa dalla montagna del male. Il criminologo Massimo Picozzi solo qualche mese fa aveva lanciato l’allarme: «È ancora un guscio vuoto come quando ha ucciso». Chissà. In campo è rilassata. Nemmeno un’ombra sul bel viso. «A vederla - commenta Zanola - pare una che non abbia fatto nulla e non si renda conto di quel che è avvenuto».
Ma forse è vero il contrario: «Mi sono trovata bene. È stata una bella giornata». Forse è il suo modo per esorcizzare il timore di quel tuffo nel mondo, sia pure in quel presepe ovattato e blindato che è per una domenica l’oratorio di Buffalora.
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