"Ero la figlia del capo ma mi trattavano da marziano"

Oggi è al vertice dell'azienda di famiglia "ma all'inizio è stata dura, ero giovane e donna. Papà? Facevo la pr a New York, mi mandò in Israele"

"Ero la figlia del capo ma mi trattavano da marziano"

È la perfetta testimonial di un'azienda che con lei tocca la quinta generazione. Perché Nadja Swarovski è una cascata di glamour: sorriso smagliante, modi da sunny woman californiana però con un fascino newyorchese. E prima di tutto questo, è donna forte e solida come una roccia, di quelle che incorniciano la sua Wattens, dove pulsa il cuore dell'azienda fondata nel 1895 dall'avo Daniel Swarovski che lasciò la Boemia per l'Austria in cerca di terreni ed energia idroelettrica per la fabbrica di cristalli.

Nadja tratta solo con le icone dei rispettivi campi, da Peter Pilotto a Aldo Bakker, Alexander McQueen, Christopher Kane, Karl Lagerfeld, Zaha Hadid, John Pawson, Tom Dixon. Ha contribuito tanto alla crescita di Swarovski, che tradotto in numeri equivale a quasi 3 miliardi di ricavi. Su suo impulso, il marchio ha ripreso a dialogare con moda, design, cinema, architettura. E' poi abile nell'anticipare i tempi e a intercettare le tendenze. Sta promuovendo la produzione di diamanti in laboratorio, un giro d'affari da un miliardo. Nadja ha deciso che Swarovski sarà in prima linea, e s'è preparata per tempo.

In 123 anni di storia, è la prima donna ad essere entrata nel consiglio di amministrazione Swarovski, azienda strettamente familiare. Una sfida.

«Per la verità non dovrebbe esserlo, ma così venne letta perché non ci si aspettava che una donna facesse parte del cda. Ritengo sia un'evoluzione naturale, dopotutto ero nel mondo degli affari da un bel po'. Provenivo da studi in arte, sentivo che avrei portato in azienda le mie competenze e conoscenze. Ero convinta che l'aver studiato arte e frequentato artisti avrebbe aggiunto valore all'azienda».

Così, saltò una generazione riallacciandosi alle strategie del nonno.

«E' stato un grande modello per me, lavorava con leggende della moda come Christian Dior o Coco Chanel. Decisi di tornare a collaborare con la moda e portare la visione degli artisti in azienda. Eravamo concentrati sulla produzione di lampadari, così mi dissi: perché non li mettiamo nelle mani di una visionaria come Zaha Hadid?».

Tra l'altro mentore e amica.

«Lei mi ha sempre incoraggiato. Mi sento onorata e fortunata per questa frequentazione. Ogni volta che le proponevo un progetto, lo accoglieva calorosamente, sia che si trattasse di gioielli, di oggetti di design o del Crystal Palace. Sapeva che promuovere i miei progetti era un modo per sostenermi».

Cosa la colpiva di questa donna?

«La personalità spiccata, eccezionale. Irruppe in un mondo maschile come quello dell'architettura, quindi dovette imporsi e far fronte a non pochi attacchi. Ha contribuito a rimodellare l'architettura seguendo la strada della sostenibilità, con forme e materiali in sintonia con la natura, penso soprattutto alle sue opere in Medioriente: semplicemente fenomenali».

Vi incontravate spesso?

«Dovevamo incontrarci poco prima che morisse. Ero già arrivata da lei quando ricevetti un suo messaggio: mi chiedeva di non salire nel suo appartamento perché non stava bene, aveva una brutta bronchite, spiegò. Tra l'altro avremmo dovuto discutere di un docufilm su Milano e il design. E poco dopo, ecco la notizia della sua morte. Mi manca tanto».

Altra donna-leggenda con cui strinse rapporti è la designer Andrée Putman

«Una donna fantastica. Io ho tre figli, il giorno del nostro primo incontro c'era il mio piccolino. Quindi chiesi alla mia segretaria di accudirlo mentre ero con Andrée. Ma lei insistette perché fosse presente anche lui. Ricordo la scena: Andrée, io, e mio figlio, tutti seduti allo stesso tavolo. Ho imparato molto da lei. Era una donna solida, sicura di sé ma allo stesso tempo molto gentile».

In tema di sicurezza di sé, lei non sembra seconda a nessuna.

«Ho le mie fragilità. E me le tengo tutte. Mi piace essere vera e leale con me stessa. Ho la fortuna di essere donna e di non vergognarmi se ho un cedimento, se mi capita di piangere. Tante volte penso che non sia facile essere uomo. Il maschio deve sempre dimostrarsi duro, incrollabile, non può far trapelare le sue debolezze. Ieri sono rientrata da qualche giorno trascorso in una clinica. Ho fatto anche dei test ormonali. Noi donne facciamo questo senza problemi, ma è pressoché impossibile convincere un uomo a sottoporsi a dei test di prevenzione».

Compreso suo marito?

«A partire da mio marito, sì, proprio così. Gli dico spesso che sarebbe opportuno fare diagnosi. Sua mamma ha l'alzheimer, quindi sarebbe saggio anticipare i tempi e capire se c'è una predisposizione e dunque prevenire. Rispetto all'uomo, noi donne abbiamo una conoscenza maggiore del nostro fisico e della nostra psiche».

A proposito di donne. Quando entrò in Swarovski la presenza femminile era minima. Oggi?

«Oggi il 72% della nostra azienda è rappresentato da donne. Nei laboratori di taglio delle pietre sono quasi tutti uomini, ma nel management i numeri sono cambianti fortemente: cosa che amo sottolineare».

Lavora in Swarovski da 20 anni. Quando la mente va ai primi tempi?

«All'inizio mi guardavano come se venissi da Marte. Ero la più giovane e per di più donna. Come se non bastasse, membro della famiglia. Nel frattempo sono cambiate tante cose, a partire dalla percezione della donna. Sento che cresce la consapevolezza che essere madri lavoratrici è un punto di forza e non un limite. Mi sono confrontata con tante donne in là con gli anni che facendo un bilancio del proprio passato lavorativo ammettono quanto sia stato importante essere riuscite a crescere i figli realizzandosi, al contempo, nel lavoro. Una donna può lavorare, essere moglie e avere figli senza trascurare niente. Essere una brava madre non vuol dire fare la mamma a tempo pieno. I miei tre figli sono orgogliosi di me. L'altra sera, rientrando a casa piuttosto stanca, il maschietto mi ha detto: Mamma, forza. vedrai che tra un po' sarai ok. Questo è il sale della vita».

Ora dove vive?

«A Londra. Che per me equivale a un bel compromesso».

In che senso?

«Amo le pietre, le rocce, e l'Oceano. Ho vissuto a New York, a Hong Kong, adoro andare nell'ufficio di Los Angeles: tutte città sull'acqua. Però vivo a Londra. I miei figli (ndr di 10, 12 e 13 anni) stanno iniziando a chiedermi di trasferirci altrove. Mia figlia Jasmine è innamorata di Milano e Parigi. Per l'evento con Anna dello Russo a Milano avevo portato anche lei, così come l'ho portata a Parigi da Christopher Kane. Certo che vederla chiacchierare con Anna e Christopher, con la naturalezza che solo l'incoscienza ti dà, m'ha fatto sorridere. E' troppo giovane per comprendere la statura di costoro».

Torniamo al richiamo dell'acqua e delle rocce. Da austriaca, dovrebbe privilegiare anzitutto le rocce innevate

«Sì, adoro sciare. Naturalmente in Austria ma anche in Colorado».

Del resto, nella sua vita c'è tanta America. Si va dagli studi (a Dallas) all'apprendistato. A proposito. Non è da tutti partire subito con uno come Larry Gagosian, il re dei galleristi.

«Ricordo le sue mostre incredibili, d'altissima qualità. Con lui ho imparato una lezione: cosa non fare. Lui manteneva distanti l'artista dal cliente. Secondo me, invece, è determinante il dialogo fra artista e committente, se ti confronti con l'artista cambia anche la percezione del prodotto, si è più consapevoli. In questo senso, io ho agito in modo opposto a lui. Forse oggi più che mai le gallerie temono che il cliente poi finisca per commissionare l'opera direttamente all'artista».

A New York lavorò per Missoni e Valentino

«Curavo le pubbliche relazioni, ero token European in a New York agency office. Che signori i Missoni».

Papà come leggeva questa sua lontananza dall'azienda di famiglia?

«Le racconto di una sua telefonata. Ero da Larry Gagosian. Mi disse: Nadja torna indietro. Dobbiamo andare in Israele per le macchine da taglio. Meglio che rientri».

Concretezza tirolese...

«Gli dissi di non essere così duro, era il mio primo lavoro E poi Gagosian non amava che ricevessi telefonate e dunque mi distraessi. Ma gli spiegai che era papà. Capì».

Quanto è stato difficile essere la figlia del capo

«Considero i nostri rapporti più che buoni. E comunque, per completare il discorso di prima, poi andai in Israele per le famose macchine da taglio, così come feci corsi di gemmologia. Per lui una soddisfazione, per me un altro momento di crescita. Mi appaga vedere e riconoscere le pietre».

Ed ora siete arrivati anche ai diamanti elaborati in laboratorio.

«Da non confondere con quelli sintetici. Sono certificati, identici a quelli naturali con cui condividono caratteristiche fisiche e chimiche, hanno la stessa durezza, brillantezza e luce di un diamante naturale, però non sono estratti. La sola differenza è questa: i nostri nascono in laboratorio, quelli naturali provengono da una miniera: con tutto quello che ne consegue».

Vuole rimarcare che è un prodotto sostenibile?

«Sì, dunque in linea con la filosofia della nostra azienda. Produciamo anche altre pietre. Siamo conosciuti per la produzione di cristalli, ma la verità è che siamo esperti del taglio e possiamo lavorare con ogni tipo di materiale».

Certo che quando mise piede in Swarovski, Alexander McQueen fece una rivoluzione

«Fu Isabella Blow a introdurmi a lui. Lo portammo in Austria, gli mostrai la fabbrica, i nostri cristalli, le nostre maglie di cristallo. E lui immediatamente capì come usare tutto questo in modo rivoluzionario e creativo, per esempio drappeggiando la maglia di cristalli attorno al corpo, magari in combinata con la seta. Qualsiasi cosa toccasse, diventava popolare. Non riuscivamo quasi a stargli dietro nel creare maglie di cristallo, dopo il suo intervento tutti le richiedevano. Diventammo così popolari che anche altri stilisti iniziarono a richiederle».

Cosa sono i gioielli per una donna?

«Qualcosa che la fa star bene. I gioielli danno forza. E il mio avo lo capì subito, volle rendere i gioielli più accessibili. Noi vogliamo continuare a far sentire bene la gente, le donne in primis. Siamo sensibili alle donne, le supportiamo. Tutto questo a partire dalla nostra azienda: la prima cosa che abbiamo fatto è stato introdurre l'orario flessibile».

Perché avete avviato una casa di produzione cinematografica tutta vostra?

«Perché consente di comunicare ulteriormente i nostri valori. L'ultimo documentario è Waterschool, e vuole sensibilizzare sul tema dell'acqua. Swarovski ha sempre dipeso dall'acqua».

Continuerete anche il filone dei film veri e propri come Romeo & Juliet?

«E' difficile competere con Hollywood, lì si investono cifre astronomiche, per noi diventa difficile. L'esperienza di Romeo & Juliet è stata gratificante, ma il nostro focus sono i cristalli. Vogliamo riflettere i valori del nostro marchio. Quindi rimarremo nell'ambito dei documentari, sto valutando dei film dedicati a designer, architetti, gioielli. Ci sono così tante storie da raccontare».

Gli Swarovski sono una settantina, e ognuno ha azioni nell'azienda. Non sarà facile mettere d'accordo 70 teste.

«Per questo il consiglio di amministrazione rappresenta tutti e 3 i rami Swarovski.

Il compito di noi che sediamo nel cda sta nell'intercettare i desideri e la filosofia dell'intera famiglia. La cosa interessante è che ora fra gli azionisti c'è l'ultimissima generazione e con essa tante giovani donne».

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