Gli eroi del calcio non sono immortali

Quando un atleta si ferma, crolla a terra, giace perché il suo cuore, di colpo, non ha più battiti, perché il suo fisico potente e prepotente si piega e si spezza, attaccato dalla malattia feroce, atroce, vieni preso da un senso di smarrimento, ugualmente improvviso ma diverso da quando lo stesso evento colpisce un'altra persona che non sia uno sportivo. Perché l'idea comune, logica, comprensibile, forse un po' infantile, è che l'uomo che pratichi sport attivo, agonistico, dunque giovane, fresco di energie, sia quasi un highlander, immortale, sano, puro, eterno, inattaccabile. Pier Mario Morosini è caduto come corpo morto cade, si è accasciato, ha guardato in cielo e poi ha dato un morso alla terra, così come era accaduto, qualche settimana fa, in Inghilterra, al suo collega di football, Muamba del Bolton o a Vigor Bovolenta, un uomo rimasto bambino, ex pallavolista, o a Francesco Mancini, aiutante di campo di Zeman a Pescara, come era successo con i ventidue anni di Antonio Puerta del Siviglia in Spagna o con Miklos Feher del Benfica, o Marc Vivien Foe del Camerun o Renato Curi sotto la pioggia scura di Perugia, o le vicende tristissime della leucemia di Petrov capitano dell'Aston Villa o del cancro al fegato di Abidal, campione di tutto con il Barcellona.
È una lista che accentua l'ansia, provoca l'angoscia ma, poi, riflettendo, scopriamo che è l'elenco della nostra vita, secondo la storia imprevedibile della stessa, dalla creazione in poi, capace di accarezzarci e di ucciderci nello stesso giorno, luce e buio assieme, improvvisi.
Lo sport non può sottrarsi a questa legge, chi lo pratica fortifica il corpo, si sottopone a controlli continui, frequenta palestre e cliniche mediche con la stessa assiduità, ma poi il cielo si squarcia e il fulmine di Zeus, come narravano gli antichi, colpisce, ferisce a morte, va a concludere quell'esistenza che sembrava, fino a un attimo prima, munita di tutti gli antifurto, corazzata, salubre. L'atleta che muore è la morte della nostra breve speranza o illusione di imitarne non soltanto i gesti ma anche la postura, il benessere fisico. L'atleta che giace, che si ferma perché malato, arresta anche il nostro sogno di correre, allenarci, vivere nello spogliatoio, mutuando la vita altrui, considerandola perfetta. La federazione italiana giuoco calcio ha deciso di sospendere il calendario delle partite, tutte, di questo fine settimana; non può esserci festa, non ci sarà sventolio di bandiere, non ci saranno cori e inni mentre il dolore e le lacrime rigano il volto di molti, di tutti quelli che hanno ancora il senso di rispetto e di cordoglio in questo mondo del football carico di veleni e di miserie, di inganni e di frodi. Una nuvola chiara, quella di Abete, nel temporale di emozioni e di commozione.
Morosini, Muamba, Abidal, Petrov, Mancini, Curi, Bovolenta, sono figurine di carta che non vorremmo collezionare, di un album che non vorremmo mai aprire. Le immagini della televisione rendono l'accadimento ancora più tragico, perché ne cogliamo, attimo per attimo, in una moviola non richiesta, lo strazio e la disperazione.


Quei fotogrammi ci restituiscono il significato dell'esistenza e, insieme, la fragilità della stessa, l'urlo di un gol, il silenzio della morte. Restiamo disarmati, incapaci di reagire, obbligati a ricominciare, confusi, increduli, smarriti. In fondo è lo sport. In fondo è la vita.
Quegli stadi deserti, oggi, riempiono il nostro sconforto.

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