Da eroi «mod» a simboli dei nuovi suoni

La domanda era: sei Beatles o Rolling Stones? Ma di lì a poco i giovani avrebbero scoperto il fascino della terza via al rock, quella al tempo stesso «nera» e protopunk, proletaria ed elitaria dei mod. The Who sono il simbolo di questa cultura (poi sviluppatasi attraverso l’esteta Paul Weller e il movimento «Northern soul»), nemica giurata dei rocker (storiche le risse sulle spiagge di Dover), anche se la forza delle loro canzoni ha unito il popolo del rock sotto un’unica bandiera. Come resistere a testi come «La gente ci vuol mettere sotto solo perché esistiamo / la gente fa cose veramente schifose / spero di morire prima di invecchiare» o a dichiarazioni di Townshend quali «non dormo mai perché ogni giorno potrebbe essere l’ultimo?». The Who (prima ancora High Numbers dalle t-shirt con grossi numeri di moda all’epoca) in realtà furono trasformati in mod dal manager Pete Meaden. Fu lui a vestirli con magliette da ciclista, giubbetti Levi’s bianchi, camicie Ben Sherman, taglio di capelli «new french line», tutta la panoplia cara ai «modernist». The Who - come sottolinea l’esperto Francesco Gazzara nel libro Mods. La rivolta dello stile «non erano mod ma suonavano (e bene) la musica preferita dai mod». Townshend e soci, in localini come il Goldhawk Club, ci davano dentro rileggendo James Brown, Martha & the Vandellas, i classici della Motown.

Così mentre le evoluzioni stilistiche (soprattutto i modaioli «face» ) portano i mod tra abiti su misura e parka, tra magliette Fred Perry, anfetamine (purple hearts), scooter superaccessoriati e ballo all’insegna del soul e dello r’n’b, The Who elaborano la loro nuova filosofia: «La nostra è vera pop art, la nuova frontiera dello stile autodistruttivo». Un volo infinito dalle 270 copie vendute del primo singolo I’m the Face alle oltre 100mila del secondo I Cant’ Explain all’appuntamento col mito...

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