Viterbo - Una famiglia sterminata. Due coppie uccise nell’esplosione della propria azienda di fuochi d’artificio, un quinto familiare ricoverato con gravi ustioni sul 25 per cento del corpo. Sono le 10.25 di ieri quando un gran botto rompe il silenzio sulle colline che circondano Castiglione in Teverina, paesino di duemila abitanti in provincia di Viterbo, sul confine con l’Umbria. Qualcuno pensa al «solito» jet che rompe il muro del suono. Qualcun altro nota fumo e fiamme alzarsi dai capannoni della «Pirotecnica Cignelli», piccola fabbrica in territorio umbro per pochi metri. E chiama i soccorsi.
In quell’azienda familiare lavorano Fiorenzo Cignelli, 58 anni, detto Giorgio, e suo nipote Renato, 44 anni. Ieri a dare una mano c’erano anche le rispettive mogli: Bettina Tirinnanzi, 52 anni, e Rossana Abbatematteo, 40. Con i quattro, impegnati a preparare uno spettacolo pirotecnico per una festa in programma domenica a Foligno, c’era anche Giandomenico, il figlio 26enne di Giorgio e Bettina. È lui che la polizia vede per primo, arrivando tra le rovine fumanti di uno dei sei piccoli capannoni della «Cignelli». Si regge appena in piedi ma è coperto di ustioni su un lato del corpo, ed è sotto shock. Prima di essere portato di corsa in ospedale riesce a dire che non è solo, che i suoi genitori e suo cugino stavano lì dentro. Ma il capannone non c’è più. L’esplosione ha fatto collassare le pareti e crollare il tetto, il fuoco ha fatto il resto: resta in piedi solo un pilastro d’angolo. Le ambulanze, arrivate in fretta, non servono più. Polizia e vigili del fuoco trovano i resti ormai carbonizzati di quattro persone: Giorgio, Bettina, Renato e Rossana.
Difficile capire cosa abbia scatenato l’esplosione. «Forse non lo sapremo mai», dice sconsolato Bruno, fratello di Giorgio e capostipite della dinastia familiare dei fuochi d’artificio da quando, quarant’anni fa, rilevò l’azienda per cui già lavorava. «È una tragedia incomprensibile, abbiamo sempre seguito scrupolosamente le norme di sicurezza: niente vestiti in acrilico, scarpe e attrezzi antiscintille, niente elettricità. Per minimizzare i rischi si lavora solo con la luce del sole, non si portano dentro nemmeno i telefonini». Per provare a dare una risposta arrivano da Roma gli esperti della polizia scientifica. A loro, e al Nucleo investigativo antincendi dei vigili del fuoco, il pm di
Orvieto Flaminio Monteleone delega una serie di accertamenti tecnici. Tempi lunghi. Più a breve verrà ascoltato l’unico testimone, Giandomenico, ricoverato al reparto grandi ustionati del Sant’Eugenio di Roma. Alla zia il ragazzo, disperato, dice di ricordare il botto, e di essersi ritrovato per terra, circondato da detriti e fiamme. Ma non spiega come possa essere accaduto. E gli inquirenti restano prudenti. In procura il fascicolo, al momento, è per «fatti non costituenti reato». E il capo del commissariato di Orvieto, il vice questore Eugenio Marinelli, allarga le braccia. «Al momento non abbiamo elementi per poter azzardare un’ipotesi seria. Speriamo che la raccolta delle testimonianze e i risultati delle analisi possano dirci di più». Di certo, l’azienda aveva una solida fama di sicurezza. «Mai un controllo fuori posto, sempre tutto in regola», ricorda il sindaco di Castiglione in Teverina, Mirco Luzi. Conferma il questore di Terni Gianfranco Urti. «Per l’ultimo controllo, lo scorso 18 novembre, sono venuti quattro ispettori. Tutto a posto».
Arriva anche il ministro della Solidarietà sociale, Paolo Ferrero, auspicando l’approvazione della legge delega in materia di sicurezza nei luoghi di lavoro, mentre il comune di Orvieto convoca un vertice «allargato» a rappresentanti istituzionali umbri e laziali. Ma un amico di Renato, mentre i furgoni della mortuaria tornano su dalla fabbrica distrutta sbuffando sulla strada sterrata, sospira: «Questa volta la causa è solo una: fatalità».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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