Amore e guerra ad Aleppo l'inferno delle donne italiane

Sono arrivate tanti anni fa dall'Emilia, dall'Umbria e dalla Calabria per sposare dei siriani. "Qui un tempo si stava benissimo. Ora rischiamo la vita facendo la spesa"

Amore e guerra ad Aleppo l'inferno delle donne italiane

Sono le prigioniere di Aleppo. Sono una quindicina, forse più. E sono tutte italiane. Sono mogli e madri di siriani trasferitesi da almeno trent'anni in quella che fino ad all'agosto del 2012 era il cuore degli affari, dei commerci e della cultura siriana. Una metropoli da 2 milioni di abitanti. Una Milano mediorientale trasformata in poco più di un anno in una città di anime morte, circondata dalla guerra e dai ribelli islamisti.
«Viviamo nell'angoscia e nella paura. Questa città è diventata una galera da cui non puoi fuggire se non a rischio della vita», racconta al telefono Elide Stino Khashoun, 69 anni. A portarla lì dalla lontana Bologna dove negli anni Settanta studiava per diventare assistente sociale fu la passione per Hanna Khashoun. «Ci incontrammo all'università - ricorda - lui era due anni più giovane e studiava ingegneria. Ci sposammo nel 1975, dopo un po' di tempo ci trasferimmo ad Aleppo dove è nata anche Barbara, la seconda delle mie due figlie. Da allora non ho mai pensato di rientrare, qui si stava troppo bene. Ma ora - sospira la signora Elide - tutto è cambiato, adesso qui si rischia la pelle anche a far la spesa. Quando mio marito esce la mattina per rimediare qualcosa al mercato, sto in ansia fino a quando non rientra. Il nostro quartiere, nei dintorni dell'Università, è ancora abbastanza sicuro, ma basta allontanarsi un po' e la guerra ti viene incontro. Devi camminare rasente ai muri, star attento ai cecchini e far attenzione che non arrivino colpi di mortaio». Ma quella spesa sotto le pallottole non vale certo il rischio o la paura. «Ah lo può dire forte - strilla nella cornetta la signora Elide con quella cadenza bolognese che neanche trent'anni di Siria son riusciti a cancellare -. Tante volte il povero Hanna mi torna a casa con un mazzo di prezzemolo e mi dice "è tutto quel che c'era". Quando va meglio sono peperoni, oppure melanzane, oppure lenticchie. La cosa strana è che non si trovano mai due cose assieme, ma quella terribile è quanto le paghi. Il pane, un anno fa, per dirle un prezzo costava 15 lire al sacchetto oggi se ti va bene lo paghi 300. E il resto non fa differenza. Il gas è diventato introvabile, ma se per miracolo uno è disposto a venderti una bombola la paghi 7000 lire contro le meno di mille di un anno fa».

Ma la storia di Elide non è un caso isolato. Assieme a lei nella città circondata dai ribelli sopravvivono alla meglio una quindicina di altre donne italiane. E assieme a loro un plotone di almeno un centinaio di figli e nipoti con la cittadinanza italiana e il passaporto nel cassetto. «Guardi - racconta la signora Elide - solo nel mio quartiere accanto all'università, nella zona occidentale della città siamo almeno una quindicina di italiane. Di Bologna come me ci sono solo la Lilli Rihaoui e la Clara Kappel, poi c'è la Giovanna Sanjah arrivata dal Trentino alto Adige, la Franca Jabri di Ascoli Piceno, la Giuliana Karoush e la Maria Alberta tutte e due dell'Umbria, Simona nata in Sardegna, la Luisanna una veneta e la Gianna Flah calabrese. Più o meno hanno la mia stessa storia hanno sposato dei siriani e li hanno seguiti fin qui, per questo io conosco solo i loro nomi acquisiti e non quelli di battesimo». In verità - come spiega anche la signora Elide - gli italiani e le italiane perdute di Aleppo potrebbero essere anche di più. «Queste sono quelle con cui sono rimasta in contatto. Con loro ci trovavamo ancor prima della guerra per andare a messa dai salesiani. Solo i loro figli e i loro nipoti registrati all'ambasciata con cittadinanza italiana sono più di un centinaio. Senza contare quelle che probabilmente non conosco e sono ancora qui da qualche parte».

Ma l'aspetto più triste della prigionia di Elide, Lilli, Clara e delle altre sopravvissute di Aleppo è la cupa sensazione di esser, ormai, state dimenticate dalla madrepatria. «L'ultima volta che qualcuno ci ha cercato a nome delle autorità italiane era prima di Natale dello scorso anno. Ci ha chiamato un impiegato dell'ambasciata di Damasco chiusa da due anni e ci ha consigliato una vacanza in Italia. Mi sono sentita presa in giro perché da qui non si può più uscire. L'aeroporto è chiuso e l'unico modo per raggiungere il Libano è attraversare in autobus le zone dei ribelli. Ma è una scommessa con il destino. Puoi finire in mezzo ad uno scontro a fuoco e lasciarci la pelle. Un mese fa due nostri conoscenti, marito e moglie sono andati a trovare i figli negli Stati Uniti e sono stati uccisi sulla strada del ritorno. Oppure puoi finire rapito.

Inoltre il mio passaporto e quello di altre amiche scade fra pochi mesi e non sappiamo come rinnovarlo. All'Italia non chiediamo molto. Ci accontenteremmo che qualcuno ci chiamasse ogni tanto illudendoci di ricordarsi ancora di noi».

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