Uno su, uno giù. Così, con tanto di suggestivo e ritmico schiocco, si muovono i flip-flop, le mitiche infradito della cultura da spiaggia americana diventate madri involontarie di uno dei maggiori insulti che a questa tornata elettorale la campagna di Obama ha rivolto a quella del rivale Romney. L'accusa è quella di cambiare idea a seconda dei calcoli politici del momento. E come tattica elettorale in parte funziona: l'accusa di essere «banderuole» fa presa tra gli elettori.
Ma mutare opinione in politica è davvero peccato mortale? Foreign Policy, prestigiosa rivista di affari esteri, fornisce prove del contrario. Il flip-flopping è arte del pragmatismo: la capacità di comprendere il momento adatto di cambiare idea incarna l'essenza stessa della politica.
E per spegnere sul nascere le alzate di sopracciglio degli alfieri della coerenza a tutti i costi, basta scorrere il nutrito elenco delle bugie dei leader che hanno fatto la storia dell'America. O, al contrario, prendere in esame il lungo elenco dei comandanti in capo rimasti fissi nella loro idea, o peggio ideologia, che si sono trovati a camminare lungo la strada del disastro. Secondo questa classificazione nella prima categoria cadono eventi come la visita a sorpresa a Pechino orchestrata dall'ex presidente americano Richard Nixon che nonostante si fosse fatto eleggere con una campagna elettorale dai toni fortemente anti comunisti fu protagonista di uno dei principali eventi che segnarono l'inizio della fine della Guerra fredda. Stessa idea di flip-flopping vale per l'ex presidente americano Woodrow Wilson che nonostante avesse promesso e ripromesso agli americani di non partecipare alla Prima uerra mondiale decise comunque di intervenire in Europa a beneficio della fine del conflitto. E che dire di Thomas Jefferson, che derise i fautori di una federazione più grande e forte e poi, divenuto presidente, acquistò la Louisiana da Napoleone? Non avesse cambiato idea, non ci sarebbe l'America che conosciamo.
Nella seconda categoria cadono invece George W. Bush e la sua irremovibile convinzione che le truppe Usa in Iraq sarebbero state accolte da liberatrici, consentendo una rapida conclusione della guerra. Lo stesso vale per Kennedy e la sua dottrina della «risposta flessibile» che fu causa indiretta dei piccoli ma costanti aumenti di truppe in Vietnam nonostante fosse chiaro che una vittoria americana sul campo non era possibile. Avesse cambiato idea, forse la guerra sarebbe stata gestita meglio. L'importante però, è distinguere nettamente tra cambiare idea e cambiare casacca: la differenza è abissale. Un conto è adattarsi alla realtà, un altro tradire i principi generali della propria politica, togliendo agli elettori il diritto a un minimo di certezza sull'identità politica del candidato.
Fissati i paletti, il ragionamento si applica alle polemiche che infiammano lo scontro Obama-Romney? Il presidente, con lo slogan «Romnesia», ha cavalcato alla grande le accuse di amnesia delle politiche attuate dal rivale quando era governatore. Romney aveva approvato politiche per limitare l'emissione di C02, oggi mette all'indice quelle predicate (ma poco praticate) da Obama. L'inquilino della Casa Bianca gli rinfacci anche l'attacco all'«Obamacare», mentre nel Massachusetts aveva promosso misure di welfare sanitario. Obama, al contrario, durante la campagna del 2008 ha promesso a gran voce la chiusura della prigione di Guantanamo, ma quattro anni dopo quel carcere è ancora lì e alcuni inqulini sono stati sì sottoposti a processo, ma con rito militare. In questo caso sono soprattutto gli oppositori alla sua sinistra a rinfacciarglielo.
Ma è frutto di una comprensibile e auspicabile real politik, che tra vent'anni verrà ricordata come saggezza politica, o solo opportunismo elettorale? La risposta, come sempre, compete agli elettori. E arriverà tra due giorni.
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