Si va sempre da sud a nord, come se il meglio, in termini di medici, chirurghi, ospedali, diagnosti, risieda sempre un po' più in su di dove stiamo noi. A ciascuno il suo viaggio della speranza, dunque, perché poi non si dica che non si è tentato il tutto per tutto. Quello del «comandante» Hugo Chavez segue la stessa traiettoria, con una motivazione in più, stavolta politica e ideologica: da Caracas alla Cuba di quell'altro illustre malato, Fidel Castro, mito e modello di don Hugo.
Chavez sta di nuovo male. «Malissimo», dicono a Caracas. Sicché, nell'arco di una settimana, eccolo al quarto viaggio da e per il gerontocomio cubano. Solo che stavolta, a giudicare dal drammatico annuncio fatto da lui stesso alla televisione, a reti unificate - con lui che come un Mario Merola nel momento più vibrante di una delle sue sceneggiate abbracciava e baciava un piccolo crocifisso, recitando una sorta di confiteor, per dire che se salvezza c'è è dall'Altissimo che bisogna aspettarsela - stavolta, si dice a Caracas, questo all'Avana può essere un viaggio senza ritorno.
Il tumore che da quasi due anni abita il corpo di don Hugo è tornato a far guasti, ecco com'è. E in Venezuela, tra il popolo che a ottobre aveva affidato a don Hugo il quarto mandato presidenziale della sua fulminante carriera, la partenza del leader bolivariano ha suscitato una cupa, malinconica atmosfera da «partono i bastimenti per terre assai luntane».
Gonfio, rigido nei movimenti come il Breznev di quando c'era l'Urss, Chavez non aveva nulla del mattatore che all'indomani del voto, a ottobre, salutava la folla agitando la sciabola di Simon Bolivar e lanciandosi in funamboliche, scompiscianti dichiarazioni come quella secondo cui «il Venezuela è una delle migliori democrazie al mondo». Solo due mesi dopo, i medici di Castro hanno intercettato «cellule maligne» vaganti nel suo corpaccione, e non c'è tempo da perdere, gli hanno detto. Operare, e subito.
Naturalmente Hugo Chavez, soprattutto ora che è «afferrato in Cristo», come ha detto in tv, è sicuro di guarire e di governare il Paese almeno fino al 2021. E tuttavia, nell'improbabile ipotesi che possa esserci anche un «dopo Chavez» egli ha infine indicato un successore. Trattasi di Nicolas Maduro, vicepresidente ed ex ministro degli Esteri. «Davanti a uno scenario di elezioni, scegliete Maduro quale presidente», ha detto, ricordando che questa è la sua «ferma opinione, piena come la luna piena, irrevocabile, assoluta, totale». E già questo, il fatto che abbia indicato un successore, la dice lunga sull'ombra che il profeta del «socialismo del XXI secolo» vede allungarsi sul suo futuro.
Il fatto è che come tutti i caudillos, Chavez non ha mai pensato a un delfino. E ha accentrato nelle sue mani tutti i poteri. Maduro, in questo senso, è il classico coniglio che emerge dal cilindro a sorpresa. Sicché è più probabile, pensano a Washington, che a tenere in mano il pallino, il giorno in cui don Hugo dovesse togliere il disturbo, sarà un generale dell'Esercito, fazione che reclama una sorta di primogenitura.
L'altro grande protagonista capace di influenzare la successione è il cartello della criminalità organizzata internazionale, che a Caracas ha allestito, con la connivenza del clan del caudillo, uno dei grandi centri del malaffare mondiale (armi e droga soprattutto). Poi ci sono gli amici pubblici: i Paesi che hanno ricavato enormi vantaggi dalla generosità e dall'appoggio di Chavez, e hanno un «cavallo» più o meno segreto su cui puntare. Cuba, in primis. Ma poi anche l'Iran di Ahmadinejad, la Bielorussia, la Russia, la Cina, il Brasile e l'Argentina, tutti quantomeno «in freddo» con l'arcinemico di sempre, gli Stati Uniti.
In tanta incertezza, conviene augurare a don Hugo un pronto ristabilimento. In un mondo sempre più scialbo e prevedibile, abbiamo già notato in passato, ci mancherebbe il suo populismo socialistoide sbracato e caciarone, e il suo antiamericanismo immaginosamente petardistico.
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