Che impresa aiutare i poveri in Africa

Chi cerca di spedire in Congo vestiti e cibo per gli orfani si trova a pagare faccendieri e bustarelle

Che impresa aiutare i poveri in Africa

«A Kinshasa c'è mai stato? Ha mai visto come vivono quei ragazzini di strada tra sporcizia, pericoli e malattie? E a noi chiedono di disinfestare la merce che spediamo…». Il racconto di Mitea Rivola inizia da quello stupore sdegnato. La sua è la storia di una carità difficile e costosa, di un ponte sbarrato tra a chi vuole donare e chi ha bisogno di ricevere. Una piccola storia simbolo dei paradossi che minano gli aiuti occidentali all'Africa. Una storia di piccoli atti di buona volontà destinati ad affondare nella burocrazia e nel disinteresse di chi ignora la sofferenza della propria gente.

La storia inizia a Seriate, dintorni di Bergamo, quando Mitea Rivola e sua sorella Marina, volontarie dell'associazione Sacra Famiglia, decidono di fare qualcosa per un orfanotrofio in costruzione a Kinshasa. La mobilitazione è quasi un'impresa di famiglia. Chiara, terza sorella di Mitea e Marina, suora dell'Ordine della Sacra Famiglia di Seriate, è laggiù nel Congo impegnata in prima persona nella realizzazione dell'orfanotrofio. «La costruzione è finita a marzo - racconta Mitea - ed allora abbiamo chiesto cosa poteva servire».
Vestiti e cibo, suggerisce da laggiù suor Chiara. Mitea e Marina lo sanno, non si può mandar quel che capita. La carità richiede regole e decenza. Si accordano con negozi e aziende, chiedono ai genitori delle varie scuole della Sacra Famiglia, ritirano in poche settimane vestitini delle passate stagioni o con piccoli difetti di fabbricazione. Tutta roba nuova ed ancora imballata. Invendibile in Italia, perfetta per i bimbi di Kinshasa.

In breve Marina e Mitea si ritrovano con un container pieno di camicie, pigiami, tute e magliette. E in più ci sono i banchi da scuola, il latte in polvere, le medicine e tutto quel che può servire a degli orfani dei bassifondi di Kinshasa. Ora però bisogna farlo arrivare a destinazione. E non è facile. Suor Chiara lo scopre non appena mette piede all'ambasciata del Congo.
«Ci presentiamo lì e loro, prima ancora di ringraziare, raccomandano di far disinfestare tutto. Roba nuova, raccolta a Seriate che va in un posto dove i bimbi vivono in fogne a cielo aperto… ma si rende conto?».

È solo l'inizio. Dopo la disinfestazione viene il momento dei soldi. Per far arrivare quel carico - spiega Mitea - finiscono con lo sborsare più di quanto non valga. «Molti container di aiuti spediti nel Congo non arrivano mai a destinazione così, per star sicure, ci affidiamo ad un faccendiere del posto che sbriga anche pratiche di altre organizzazioni. È lui a indicarci la ditta di spedizioni che prende in consegna il container e ci consegna una fattura da 8000 euro. Eppure quei soldi neppure bastano per farlo arrivare a Kinshasa. Sbarcatelo al porto di Matadi - ci consigliano - e poi affidatevi all'Ambasciata di Malta, perché altrimenti non arriverà mai. Il container è partito il 2 aprile e ora non ci resta che sperare. Di sicuro dovremo pagare ancora ed anche così nulla è garantito. Strada facendo può comunque sparire tutto».

Le paure di Marina e Mitea e il costo della loro carità rispecchiano la grande contraddizione del complesso sistema che regola gli aiuti umanitari. Un sistema in cui le donazioni dei benefattori rischiano da una parte di non raggiungere i destinatari finali e dall'altra di alimentare interessi privati e burocrazie corrotte. Alberto Piatti di Avsi, una delle più qualificate organizzazione umanitarie italiane con oltre cento progetti all'attivo in oltre 37 Paesi, lo sa bene. «Spedire un container con uno scavatore per costruire una strada a Ovira nella Repubblica democratica del Congo ci è costato migliaia di euro, ma siamo stati costretti a farlo perché reperire quel tipo di macchina sul posto era assolutamente impossibile. In tutti gli altri casi devi utilizzare i soldi delle donazioni per acquistare sul posto mezzi e attrezzature».

In effetti le raccolte di cibo e alimentari molto spesso non raggiungono l'effetto desiderato. «Per aiutare i Paesi in via di sviluppo bisogna accendere le loro economie e noi su questo punto ci siamo dati regole precise - spiega Alberto Piatti -. Tutti gli acquisti di beni, opere e servizi per lo sviluppo dei progetti vengono effettuati, ove possibile, utilizzando risorse umane e materiali locali. Così contribuiamo anche allo sviluppo dei Paesi in cui operiamo».

Secondo Piatti e i volontari dell'Avsi l'unica soluzione in grado di evitare corruzione e sperperi è il cosiddetto «ultimo miglio», ovvero la creazione nei Paesi in cui si opera di una rete di associazioni locali serie ed affidabili a cui delegare la realizzazione degli aiuti. «L'attuale sistema di erogazione degli aiuti allo sviluppo a livello nazionale si basa sul finanziamento diretto agli Stati. Questo tuttavia - spiega Piatti - blocca il sostegno di organizzazioni già presenti sul campo ed assai più efficienti e virtuose dello Stato, soprattutto nel continente africano.

La nostra legge sulla Cooperazione, vecchia di 25 anni, è da questo punto di vista un serio ostacolo».
Ma la nuova legge destinata a regolare gli aiuti internazionali è ferma in Parlamento. E non sembra destinata a veder la luce tanto presto.

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