«È come se vent'anni fa gli elettori italiani avessero confermato la fiducia ai partiti di governo dopo lo scandalo di Mani pulite, nonostante la rimozione forzata di tutti i magistrati che lo avevano fatto scoppiare» ha commentato la politologa turca Elmira Bayrasli dopo la vittoria di Tayyip Erdogan nelle elezioni amministrative di domenica, trasformate in un referendum sulla sua persona. Dal canto suo il premier, nel discorso pronunciato nella notte per celebrare il successo, ha subito fornito una conferma delle tendenze autoritarie di cui è accusato: «I traditori - ha annunciato, riferendosi a coloro che hanno cercato di abbatterlo - la pagheranno cara. Qualcuno di loro cercherà di scappare, ma non sfuggiranno alla loro punizione». Quel poco che rimane della stampa libera, infatti, prevedeva già ieri una nuova ondata di arresti, soprattutto dei seguaci dell'imam Fetullah Gulem, il suo ex alleato ora diventato principale avversario, tuttora presenti nell'esercito e nell'apparato statale e accusati di avere montato artificialmente gli scandali.
La vittoria di Erdogan è stata più netta del previsto, nel senso che il suo partito AKP ha perso solo quattro punti rispetto alle ultime politiche, quando aveva sfiorato il 50%, e ne ha addirittura guadagnati cinque rispetto alle precedenti amministrative. Ha vinto con largo margine a Istanbul, che i repubblicani avevano sperato fino all'ultimo di conquistare, e sembra che ce l'abbia fatta a tenere, sia pure per un soffio, anche Ankara. Ma l'esito elettorale ha confermato che ormai esistono due Turchie: quella conservatrice, islamista, indifferente agli scandali, in buona misura antioccidentale, concentrata nei sobborghi delle grandi metropoli e nelle sterminate campagne dell'Anatolia, e quella moderna, laica e contraria alle antiche pratiche religiose che ha i suoi punti di forza nei centri urbani, nella Tracia e sulla costa dell'Egeo dai Dardanelli ad Antalya. Il problema è che, mentre la prima è compatta dietro Erdogan, la seconda è divisa tra kemalisti, intellettuali, nazionalisti, musulmani moderati, per giunta sparpagliati in tre partiti dotati di una leadership piuttosto evanescente. Lo stesso Gulem, sulla cui organizzazione l'opposizione contava, ha dimostrato di avere una certa influenza, ma pochi voti. «Le parti si sono riovesciate - ha riassunto la situazione una giornalista -. Fino a dieci anni fa, venivano discriminate le donne che volevano portare il velo, adesso saranno guardate male quelle che vanno in giro senza».
Sebbene il risultato complessivo non possa essere messo in dubbio, e sia la Borsa sia la lira turca abbiano (moderatamente) festeggiato, sono naturalmente già partite le accuse di brogli. Anche un blackout elettrico, concentrato in alcune zone e che ha costretto a completare gli scrutini a lume di candela, è apparso sospetto. L'atmosfera rimarrà avvelenata a lungo, con il capo del Partito Repubblicano Kilicdaroglu che continua a chiamare Erdogan «primo ladro» e «dittatore». È anche prevedibile che, in seguito agli scandali e alle turbolenze degli ultimi tre mesi, aumenterà l'isolamento internazionale della Turchia. Il «sogno ottomano» del premier, che attraverso la primavera araba e una stretta alleanza con i Fratelli Musulmani sperava di riconquistare una posizione egemone nella regione è definitivamente naufragato.
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