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Gli eroi sulle orme di Madiba dalla Cina a Cuba al Bahrein

C'è San Suu Kyi con i suoi 15 anni di carcere e Antonio Sanchez in cella da 7 per avere chiesto libertà di stampa ai Castro

Gli eroi sulle orme di Madiba dalla Cina a Cuba al Bahrein

«Madiba» non c'è più, ma seguendo il suo esempio, altri leader sapranno, forse, trasformarsi da capi dell'opposizione, anche armata, a simboli della pacificazione di un paese. A volte il paragone con il Madiba - come nel caso del palestinese Marwan Barghouti o del capo curdo Abdullah Ocalan - può apparire irrispettoso. Eppure lo stesso Mandela oppose un secco «no» a chi gli offriva la libertà in cambio di una condanna della violenza largamente praticata da un «African National Congress» che ancora nel 1987 Margaret Thatcher definiva «organizzazione terrorista». Il primo posto dove cercar un nuovo Madiba sono oggi le galere cinesi. Lì langue dal 2008 il critico letterario Liu Xiaobo. La sua unica colpa è aver scelto il 60mo anniversario della Dichiarazione dei diritti dell'Uomo per promulgare “Charta 08”, un manifesto che invocava il rispetto delle libertà individuali e auspicava l'avvio di vere riforme. Neppure il Nobel per la Pace del 2010 ha convinto Pechino a rivedere la condanna a 11 anni di prigione comminatagli nel 2009 con l'accusa di «incitamento alla sovversione del potere dello stato».

Un altro Mandela «in fieri» è Antonio Ramon Diaz Sanchez, il dissidente finito per sette anni nelle carceri di Cuba dopo aver promosso il Progetto Varel, un manifesto in cui rivendicava la libertà d'espressione, stampa e religione. Grazie alla benevolenza di un'Europa sempre riluttante ad attaccare i fratelli Castro, la vicenda del dissidente cubano, imprigionato dal 2003 al 2010 e spedito poi in esilio in Spagna, è praticamente sconosciuta. Segregato con altri 26 in una cella di cinque metri per cinque Antonio Ramon Sanchez è stato liberato solo quando le sue condizioni di salute sono diventate così critiche da farne temere il decesso. Assai più controversa è la condizione di Marwan Barghouti, il 54enne leader di Fatah definito il «Mandela palestinese». Catturato a Ramallah nel 2002, Barghouti è stato condannato dai tribunali israeliani a cinque ergastoli per il coinvolgimento in tre attentati costati la vita a cinque persone. Nonostante questi legami con il terrorismo il 60% dei palestinesi continua a giudicarlo il migliore dei leader possibili. E per tanti israeliani resta l'unico in grado di riunificare i palestinesi e portarli alla trattativa di pace.

L'incognita terrorismo grava anche sulla testa del 65enne Abdullah Ocalan, il capo curdo del Pkk rinchiuso dal 1999 in una cella sotterranea dell'isoletta prigione di Imrali. Condannato prima a morte e poi all'ergastolo, Ocalan lo scorso 21 marzo ha chiesto ai suoi di deporre le armi. L'accordo con il governo di Erdogan potrebbe dunque preludere ad una liberazione e ad una nuova vita del «terrorista» Ocalan. Aleksey Navalny, l'aspirante Mandela russo sempre pronto a sfidare Vladimir Putin non può certo venir accusato di dimestichezza con la violenza. Il 37enne blogger, arrestato più volte, condannato per appropriazione indebita e definito il più pericoloso nemico di Putin, sconta però un passato da vice presidente di Yabloko, un movimento nazionalista molto vicino alla xenofobia e al razzismo. Al di sopra di ogni sospetto resta il 55enne Abdulhadi al-Khawaja, un militante dei diritti civili condannato all'ergastolo e sepolto in carcere per aver sostenuto la protesta della maggioranza sciita del Bahrein schiacciata da una monarchia sunnita.

In questa sfilata di aspiranti Mandela la più vicina a eguagliarne il percorso politico resta però Aung San Suu Kyi, l'eroina dell'opposizione birmana rilasciata nel 2010 dopo 15 anni di arresti domiciliari e pronta oggi a correre per le presidenziali del 2015.

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