
A vederlo negli ultimi anni, sempre in procinto di scomparire dentro la sua divisa da Cameriere Galattico in una qualche Guerra Stellare (giacca bianca, cravatta nera, medaglie di tutti gli Ordini comunisti possibili appuntate sul petto) nessuno avrebbe detto che quell'omarino era proprio lui, il leggendario generale Giap: lo stesso che una quarantina d'anni prima, in Vietnam, aveva inflitto agli Usa la più cocente, e insieme anche l'unica, sconfitta militare della loro storia.
Non che da giovane facesse più impressione, sotto il profilo pugilistico, il vecchio Giap. Alto qualcosina in più del metro e cinquanta, una complessione fisica da passeriforme, la bestia nera degli americani sembrava fatto apposta per essere preso sottogamba dagli avversari. Così fecero, sbagliando, i giapponesi, i francesi, i cambogiani e da ultimo i marines del generale Westmoreland, cresciuti a omogeneizzati e a Ovomaltina. Furono sorci verdi per tutti. Mai che nessuno dei suoi nemici avesse capito per tempo che quell'omino - grande tattico, ma ancor più grande stratega militare- era spinto da un invisibile motorino atomico.
Vo Nguyen Giap, morto ieri alla veneranda età di 102 anni, era nato il 25 agosto 1911, l'anno del Cane, in una capanna illuminata da tre lumicini sempre accesi davanti all'altarino degli antenati in un piccolo villaggio dell'Annam. Entrato nel 1929 nel Partito comunista aveva un solo mito: Ho Chi Minh. Ma giusto perché era vietnamita. Fosse nato un po' più in là, sulla carta geografica, il suo mito sarebbe stato Mao Tse Tung.
«La lotta armata popolare è la scuola migliore», rispondeva a chi gli obiettava la sua scarsa preparazione bellica. Ma mentiva. Di notte, già da ragazzo, leggeva e rileggeva i resoconti delle campagne napoleoniche, i testi di von Clausewitz e gli insegnamenti dei condottieri vietnamiti che si erano opposti nel corso di duemila anni ad ogni tentativo di occupazione. Guerriglia, guerra di movimento, la vecchia tattica del mordi e fuggi. Il suo credo militare era riassunto in questi tre concetti. Niente di nuovo, del resto, rispetto a quanto già predicava Tran Hung Dao, il grande condottiero che guidò nel XIII secolo la resistenza contro i mongoli. Niente di nuovo anche rispetto alla tattica predicata in altra epoca e sotto altri cieli da Quinto Fabio Massimo, il «Temporeggiatore». «Vincere il grande numero col piccolo numero», fu una delle sue massime più recitate. Funzionò sempre.
Sbaragliati i francesi a Dien Bien Phu, il generale Giap si concentrò sugli americani, quando a Washington decisero che quella spina comunista ad Hanoi doveva essere espunta. Contro la superpotenza, Giap giocò d'astuzia, inventando una ragnatela di cunicoli sotterranei e di «santuari» nella giungla attraverso cui passavano armi e rifornimenti ai vietcong. Come la «pista di Ho Chi Minh» in Laos e in Cambogia: una fitta serie di strade in terra battuta, di sentieri e di guadi percorsa da secoli dalle tribù nomadi e dai contrabbandieri di oppio.
Poco prima dell'offensiva del Tet, all'inizio del 1968, quella che segnò l'inizio della fine per l'avventura americana in Indocina, Giap diede un'intervista al quotidiano francese Le Monde. «Gli americani perderanno, e sa perché? - disse al giornalista che lo aveva raggiunto nella giungla -. Perderanno perché fanno la guerra con l'aritmetica.
Interrogano i loro computer, fanno somme e sottrazioni e su quelle agiscono. Ma qui l'aritmetica non è valida: se lo fosse, ci avrebbero già sterminato». Si chiamava Giap. Vo Nguyen Giap. Sembrava un passero, ma era un fulmine di guerra.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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