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Le imprese si trasferiscono in Bangladesh e in Etiopia

di Marco Giorgino*

I dati sull'andamento delle economie cosiddette emergenti manifestano nuovamente segnali di rallentamento. Certo sono informazioni che fanno notizia. Anche se, ricordiamolo, parliamo di riduzione del tasso di crescita. Siamo stati abituati negli ultimi anni a velocità di crescita a due cifre di aree come quelle riconducibili al cosiddetto Brics, ma anche di Paesi come Messico e Turchia. E ora vedere segnali di rallentamento, pur con numeri ancora molto lontani da quanto caratterizza le economie occidentali, crea qualche interrogativo. Vedere l'economia cinese presentare negli ultimi trimestri segnali di riduzione del tasso di crescita, è elemento di attenzione, soprattutto rispetto al ruolo che essa ha come locomotiva per l'economia mondiale e rispetto alle scelte di internazionalizzazione delle imprese, anche italiane.
Insieme alle economie Brics, con il ruolo principale, l'economia cinese rappresenta circa un terzo dell'economia mondiale. Ha basato la propria crescita anche su una forte leadership di costo, sia attraendo imprese di tutto il mondo, anche italiane, che erano alla ricerca di produzioni molto più efficienti, sia favorendo lo sviluppo interno di importantissimi operatori economici, oggi leader a livello mondiale in molti settori industriali e commerciali.
I segnali di rallentamento però oggi si avvertono. E ci sono due elementi che possono essere fatti emergere per cercare di interpretare tale fenomeno. Innanzitutto la forte interconnessione delle economie, che non lascia indenni queste aree del mondo rispetto alla forte crisi internazionale che stiamo vivendo. Anche l'economia cinese risente della crisi, soprattutto con riferimento alla domanda internazionale di beni di consumo e industriali derivante, in particolare, dalle economie occidentali. L'altro elemento è il fatto che la forte crescita interna non avvenga a fattori costanti. Il reddito medio pro capite aumenta. Il costo del lavoro tende ad aumentare. E per i settori a più bassa marginalità ci si chiede se questo possa essere compatibile con strategie competitive basate su un puro vantaggio di prezzo. Quelle che erano forti efficienze sulla struttura dei costi, oggi non sono più garantite.
È la storia che dimostra che un'economia non può fondare il proprio vantaggio competitivo su un puro fattore di costo. Le imprese italiane che negli anni '89 e '90 hanno delocalizzato la propria produzione solo per perseguire vantaggi di costo ne sanno qualcosa. Hanno trasferito know how ad altre economie e ad altri operatori, e non sempre nel lungo periodo hanno internalizzato e controllato il valore creato attraverso queste scelte.


Fa scalpore oggi la scelta di delocalizzazione da parte di imprese cinesi in Paesi come il Bangladesh o l'Etiopia, nella ricerca di un vantaggio di costo che certamente nel breve paga, ma che non sappiamo se possa essere davvero la giusta risposta strategica a questi segnali di flessione.
*economista
twitter@marco_giorgino

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