«Panem et circenses» è la locuzione a cui si aggrappa Assad per illudersi e illudere che in Siria ci sia una parvenza di normalità. In realtà gli sono rimasti solo i «circenses» perché il pane inizia a scarseggiare ovunque, soprattutto da quando ha ordinato il bombardamento dei forni per trascinare i ribelli alla fame più nera. Non restano che i giochi da circo con le fattezze di una sfera di cuoio, perché in Siria si gioca a calcio nonostante la guerra, e a nessuno è passato per l'anticamera del cervello di sospendere il campionato. Lo spettacolo deve continuare. Non lo pensa solo Assad, ma soprattutto il cugino Fawwaz, proprietario e sostenitore del Tishreen di Latakia. Uno che entra allo stadio con la pistola ben in vista, risoluto a usarla quando gli arbitri fischiano un rigore contro la sua squadra. Lo scorso anno Fawwaz è sceso in campo sparando in aria come in un film western di quart'ordine. Storie che vengono a galla dopo anni di censure della stampa di regime, che pubblica con puntualità i risultati del campionato.
Assad si è lasciato influenzare anche nelle scelte sportive, allestendo un torneo che ha le fattezze di un patetico teatrino. La Premier League ha preso il via soltanto a Damasco e dintorni. In stadi rigorosamente simili a paesaggi lunari si sono affrontate le squadre raggruppate nel girone della capitale. Ad Aleppo, nonostante un calendario diramato nei mesi scorsi dalla federazione, non c'è stata invece la possibilità di giocare una sola partita. «Gli arbitri hanno paura a dirigere gli incontri di Aleppo, Homs o Idlib - racconta Ammar Rihawi, allenatore dell'Al Ittihad, squadra della città del sapone - e lo stesso accade con i giocatori. Il rischio di morire in campo è altissimo». Proprio ad Aleppo il regime aveva inaugurato l'anno scorso un impianto avveniristico, progettato dall'architetto polacco Stanislaw Kus. Ma si tratta di una cattedrale nel deserto. Un teatro che è rimasto molto presto senza attori.
Si resta con le mani in mano ad aspettare giorni migliori, oppure si ammazza il tempo in tante maniere, compresa quella di arruolarsi tra i rivoltosi. I giocatori dell'Omyyah di Idlib (60 km da Aleppo) non hanno esitato un solo istante e si sono messi a disposizione della brigata «Shuhada Badr». Venti giocatori, l'allenatore e persino il magazziniere. A quelle latitudini l'odio per Assad si può tastare con mano. «Ha distrutto il Paese - spiega Zakaria Hassan Bik, 23 anni, difensore di ruolo dell'Omyyah, miliziano dell'ultima ora - anche lo sport è stato devastato dal regime». Zakaria si riferisce alla squadra dell'Al Jaish, il club dell'esercito nel quale giocano alcuni elementi che seminano il terrore nella famigerata Quarta Divisione Corazzata. Calciatori e soldati che hanno anche vestito la maglia della nazionale prima dell'embargo imposto dalla Fifa.
Guerra e pallone si intrecciano in Siria forse ancora di più di quanto accaduto in passato nell'Iraq di Saddam. Ci sono atleti invisi alla popolazione perché quando imbracciano le armi si macchiano dei peggiori crimini, come le colonne della nazionale Mohamad Zbida, Afa Al Rifai o Jehad Al Baour. Non mancano i disertori, come il portiere Albasit Sarut, reporter per conto dell'Esercito della Siria Libera, l'uomo che posta sui principali social network le efferatezze degli uomini di Assad.
Su di lui pende una taglia da 200mila dollari. E come in ogni storia surreale ci sono anche gli stranieri, non intesi come mercenari dell'AK-47: sono i calciatori provenienti da Brasile, Romania e altri Paesi. In tutto dodici tesserati che in barba alla situazione surreale vivono a Damasco nella loro cappa di vetro e guadagnano anche 300mila dollari a stagione (come il centravanti brasiliano Edmar).
Il caso più clamoroso riguarda l'allenatore rumeno Valeriu Tita, consulente per la federcalcio di Damasco.
Fa la spola tra la Siria e la Giordania, in attesa di riprendere l'attività di commissario tecnico di una nazionale più avvezza alle pallottole che alla palla.
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