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Primo siluro Ue alla Svizzera: stop ai colloqui sull'elettricità

"Non è possibile volere la libera circolazione dei capitali e respingere quella delle persone"

Prima reazione a muso duro dell'Unione Europea nei confronti della Svizzera dopo il referendum di domenica scorsa che ha rimesso in discussione tra l'altro i trattati sulla libera circolazione dei cittadini. La Commissione Ue ha comunicato che il negoziato tra Bruxelles e Berna in tema di elettricità è di fatto sospeso «alla luce della nuova situazione, perché dobbiamo verificare il da farsi nell'ambito del più ampio contesto delle relazioni bilaterali».

Si tratta di un chiaro messaggio politico, che da subito dimostra come la scelta degli elettori svizzeri sia destinata ad avere ricadute a livello europeo in numerosi e concretissimi ambiti cruciali. Berna cerca di gettare acqua sul fuoco e prendere tempo, ma Bruxelles ha fretta di sbrogliare l'intricata matassa che si è venuta a creare. Così, se il ministro degli Esteri svizzero Didier Burkhalter sostiene che «la situazione è oggettivamente difficile ma non è poi la fine del mondo», il presidente di turno greco del Consiglio affari generali, Evangelos Venizelos, in rappresentanza dei ministri degli Esteri e delle Politiche europee, mette i famosi «puntini sulle i» e va volutamente a toccare il punto più sensibile per la Confederazione: le banche. Per Venizelos le libertà fondamentali su cui si fonda il mercato unico non possono essere prese à la carte, ma sono «indivisibili». Pertanto, non si può volere la libera circolazione dei capitali e non concedere la libera circolazione delle persone.

Il messaggio da Bruxelles è chiarissimo, ma questo non significa che ci saranno sanzioni o ritorsioni nei confronti della Svizzera. Si pretendono però da Berna tempi rapidi e richieste precise, ricordando ad esempio che c'è sull'agenda la firma dell'accordo sulla libera circolazione in Svizzera dei lavoratori della Croazia, ultima arrivata nella famiglia dei Ventotto dell'Unione Europea. Senza dimenticare le preoccupazioni che si ritrovano a dover gestire i Paesi limitrofi alla Svizzera, Italia in testa, con i loro frontalieri.

Tocca insomma alla politica svizzera muoversi, e non è un compito invidiabile. Con l'esclusione dell'Udc che l'aveva proposto, tutti i partiti di governo e le associazioni di categoria avevano chiesto agli elettori di bocciare il «referendum della discordia». La sua inattesa approvazione, seppur di misura, getta in una crisi di credibilità la politica elvetica e solleva un autentico vespaio internazionale che costringe ad affrontarlo proprio coloro che avevano cercato di impedirlo.

Il malcapitato Burkhalter, al termine di un incontro con la commissione Esteri del Consiglio Nazionale (la Camera dei deputati svizzera) che dev'essere stato tutto fuorché facile, ha annunciato l'avvio dei primi contatti informali con i partner europei «per spiegare l'esito del referendum» e «definire meglio se esistono margini di manovra per negoziati futuri e affinare meglio la nostra strategia». Un linguaggio che tradisce il disagio di dover gestire a nome del proprio Paese una politica diversa da quella che si intendeva condurre nel suo interesse.

Berna dovrà insomma chiarire quale sarà il destino degli accordi di libera circolazione con l'Ue, considerato che il referendum che gli svizzeri hanno approvato «contro l'immigrazione di massa» prevede la reintroduzione di quote per gli stranieri. Ma in Svizzera, ha assicurato Burkhalter, «non c'è alcuna volontà politica» di farli decadere.

Essendo improbabile che possano rimanere come sono, non rimane che l'ipotesi di un riesame: bisognerà vedere in quale direzione.

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