Si mettono ancora in testa le parrucche, ma non hanno tabù. I giudici di Sua Maestà affrontano senza pregiudizi i tornanti della possibile privatizzazione della giustizia. I costi sono stellari, il mondo cambia e alla fine anche a Londra un tema così complesso e più problematico di un rompicapo viene analizzato con spirito laico. In Inghilterra non tutto quello che succede viene interpretato avvicinando l'occhio al buco della serratura di casa Cameron. Da noi, figurarsi, anche solo cedere a qualche imprenditore un centimetro quadrato del palazzo di giustizia di Milano provocherebbe scioperi, alzate di scudi, lenzuolate di appelli con corredo di firme nobili. Si griderebbe al complotto e, passati i canonici cinque minuti, qualcuno rintraccerebbe l'immancabile zampino del Cavaliere dietro l'operazione.
In Inghilterra, come ricordava ieri il glorioso Times che ha dedicato all'argomento un ampio articolo in prima pagina, il servizio giustizia funziona bene o male dai tempi della Magna Carta, quindi dal 1215. Un percorso lungo ottocento anni ma questo non significa difendere lo status quo come fosse un dogma o abbandonarsi ad acute geremiadi contro il nemico che come un gigantesco polipo mette le mani su una funzione dello Stato così delicata e importante.
Naturalmente ci sono diversi progetti e studi sul tavolo. C'è chi propone di trasferire ai privati solo gli edifici e chi si spinge più in là immaginando che anche il personale amministrativo di Inghilterra e Galles riceva un domani lo stipendio da qualche big dell'industria. Insomma, c'è un piano A e c'è pure un piano B, e comunque si ragiona e si discute con pareri e contropareri di politici, avvocati e magistrati. Nessuno ovviamente pensa che il giudice possa essere al servizio di un privato, quello no, eresia e sacrilegio, ma per cercare di arginare gli ingenti costi del settore tutti sono pronti a valutare con serenità e realismo le più disparate ipotesi. Nessuno indossa i sacri paramenti della casta.
Esattamente il contrario di quel che succede da noi. In Italia anche solo a evocare la separazione delle carriere - ricordate l'inconcludente tormentone di qualche anno fa? - ci si straccia le vesti, perché questo passaggio minerebbe l'autonomia dei pm. Nel nostro Paese le riforme, specie quella della giustizia, si annunciano ma non si fanno, come non si è realizzato il nuovo codice penale, scritto e riscritto ma solo virtualmente da un'interminabile successione di commissioni di destra, di sinistra e di centro, con produzione di tomi puntualmente impilati in un cassetto. Proprio com'è successo con le tanto sbandierate udienze pomeridiane: dalle 14 in poi i tribunali sono deserti. E così anche solo cambiare una lampadina bruciata nei corridoi dechirichiani della cittadella ambrosiana del diritto può essere un problema nel labirinto delle competenze e della burocrazia. In Italia la parola manager risveglia antichi sospetti e retropensieri e allora, per superare anche questa curva pericolosa, si è puntato sui giudici-manager, centauri postmoderni in grado di coniugare gli articoli del codice penale e le voci del bilancio. Dunque, non è cambiato nulla.
Ci vorrebbe, anche a Roma, un po' di spirito anglosassone. Per esempio l'empirismo antiideologico che si ricava dalle parole di un magistrato della Corte suprema americana, Antonin Scalia. Scalia, in Italia su invito dell'Istituto Bruno Leoni, è stato chiaro e pungente nei suoi colloqui con La Stampa e il Corriere della sera: «L'attivismo giudiziario è un abuso di potere e distrugge la pretesa dei magistrati di essere il legittimo arbitro finale del significato delle leggi».
Fra le tante illusioni, nel nostro Paese si coltiva anche l'idea che il giudice sappia gestire budget e risorse come gli imputati e le pene. Errore. Il nostro sistema, per tante ragioni, boccheggia e le riforme nascono e muoiono dentro i convegni. Davvero, ci vorrebbe un tocco di british style, anche con le parrucche in testa.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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