L'abdicazione d'un re è un evento traumatico. Perché segna il più delle volte non solo un passaggio di mano dinastico, ma una cesura nella vita del Paese che aveva quel re come guida - seppure con tutti i limiti previsti dalle costituzioni moderne- e comunque come simbolo dell'unità nazionale. È traumatico, l'evento, anche quando avvenga in un momento non contrassegnato da conflitti aspri, da sciagure, da crisi profonde. Perché quando questa è la situazione il trauma diventa dramma, o tragedia. Se ne sa qualcosa in Italia dove l'abdicazione del sabaudo Carlo Alberto parve tarpare per sempre le ali al Risorgimento, e dove l'abdicazione di Vittorio Emanuele III dopo l'8 settembre 1943 pose un suggello alla fine della monarchia. Che si sarebbe avverata dopo la breve parentesi del «re di maggio», Umberto II.
Juan Carlos non se ne va perché travolto da una bufera. Le sue ultime leggerezze, la sua vanesia esibizione come cacciatore d'elefanti, hanno appannato ma non cancellato i meriti che acquisì opponendosi al golpe del colonnello Tejero. E' senza colpe gravi, così come lo era re Alberto del Belgio, anche lui indotto a cedere lo scettro al figlio. Ma forse è che in questa Europa incerta e contestata quei personaggi davano l'impressione d'appartenere ormai ad un'altra epoca: anche belle époque se si vuole ma datata. Il copione era diverso, ed essi stessi se ne erano resi conto. Il che fa onore alla loro saggezza. Non erano autorevoli al punto di farsi rimpiangere, e nemmeno avevano l'impronta mitica di quella anziana signora che è Elisabetta d'Inghilterra.
I tre che ho citato -Juan Carlos, Alberto del Belgio e Elisabetta - avevano un grosso problema in comune. Che per Juan Carlos si chiama -si chiamava- Catalogna, che per Alberto si chiama -si chiamava- indipendentismo fiammingo, che per Elisabetta si chiama Scozia. E' difficile impersonare l'identità d'uno Stato quando forze potenti vogliono lacerarlo. Ho parlato di trauma e non di tragedia, ma il ruolo d'un re senza poteri che dovrebbe avere il potere di tenere insieme pulsioni contrastanti è tale da mettere in difficoltà anche un grande statista.
Non so quanto la polemica catalana, e la crisi economica, e un logoramento non precipitoso ma evidente del prestigio monarchico abbiano contribuito alla decisone di Juan Carlos. Suppongo che abbiano contribuito molto. La Spagna moderna ha proceduto storicamente in un alternarsi di monarchia e repubblica, di dittature e di fragile democrazia, e Juan Carlos fu, per volontà del «generalisimo» Franco, il re designato d'un regno prossimo venturo. Di quella designazione autoritaria Juan Carlos seppe fare, almeno per molti anni, il miglior uso. Ma il tempo è scaduto, tutto è cambiato, cambia anche il re, e Juan Carlos dice addio portando con sé una pagella tutto sommato positiva.
Ha colto l'attimo fuggente, forse s'è sentito progressivamente fuori del grande fiume della storia, le europee hanno penalizzato i partiti che lo sostengono, i sondaggi lo collocano al minimo storico di popolarità dopo la fine del franchismo. Allora adios. Era il momento della pensione, e lo ha capito: per fortuna sua e anche, probabilmente, per fortuna della Spagna. Questa Europa inquieta, questo mondo inquieto sembrano attendere voci nuove (e non alludo a Matteo Renzi). Non è soltanto questione d'anagrafe, è soprattutto questione di mentalità, d'approccio alla realtà.
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