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La Serbia rifila un calcio a Bruxelles

Nikolic, uomo simbolo dell’orgoglio nazionale, sconfigge l’uscente Tadic. E ora Belgrado sogna di tornare una grande potenza filo-russa

La Serbia rifila un calcio a Bruxelles

Il «becchino» ha affossato l’Europa. Quando alla fine degli anni Ottanta lasciò un posto da supervisore cimiteriale per dedicarsi alla politica, Tomislav Nikolic non s’aspettava certo che il soprannome, affibbiatogli dai compagni di partito, l’avrebbe accompagnato fino alla presidenza trasformandolo in uno dei simboli dell’agonia europea. Invece nel ballottaggio di domenica il becchino Toma, ultimo uomo simbolo del nazionalismo serbo, ha conquistato il 49,5% dei voti infliggendo una sorprendente sconfitta al presidente uscente Boris Tadic fermo al 47,3. Ma la vittima più illustre del becchino non è il presidente bensì l’Europa. Un’Europa convinta di poter continuare ad ammaliare e addomesticare una Serbia sconfitta e impoverita, una Serbia orfana del Kosovo e del sogno di grande potenza balcanica.

Quella convinzione aveva contagiato anche Tadic. Nel segno dell’effimero miraggio europeo il presidente ha concesso a Bruxelles tutto e di più. Ha fatto buon viso a cattivo gioco quando l’Unione Europea gli ha chiesto d’ingoiare l’indipendenza del Kosovo, culla primigenia della patria serba. Ha chinato il capo quando gli ha imposto di consegnargli Radovan Karadzic e Ratko Mladic, i due grandi ricercati che tanti serbi considerano ancora patrioti perseguitati. Con quelle credenziali in tasca Tadic pensava di sconfiggere Nikolic, come già due volte in passato, riscuotere il credito vantato da Bruxelles, regalare alla Serbia la candidatura europea e risollevarla con l’aiuto dell’Unione. Non aveva fatto i conti, nonostante un passato da strizzacervelli, con gli umori del proprio elettorato. Un elettorato poco disposto a credere, vista l’agonia greca e la tracotanza di Angela Merkel, alle promesse europee e molto più sensibile ai vecchi programmi di Toma Nikolic. Quelli che esaltano la vicinanza ideale alla Russia di Putin e garantiscono un «no» a oltranza all’indipendenza kosovara. Quelli spiccioli, ma concreti che promettono più tasse per i ricchi e più sussidi per poveri.

Certo il becchino Toma si guarda bene dal voltar le spalle a Bruxelles. «La Serbia non abbandona il cammino europeo» ha ribadito dopo la vittoria. Nel nome d’una possibile adesione all’Europea ha persino rotto i ponti con Vojislav Seselj, il capo del partito radicale sotto processo all’Aia di cui è stato per 17 anni braccio destro. Ma chi conosce il navigato Toma, già vicepresidente di Serbia e Jugoslavia ai tempi di Milosevic, suggerisce di non illudersi. Mollare Seselj e i vecchi arnesi del partito radicale, fondare il partito progressista, allinearsi formalmente all’Europa erano atti dovuti per puntare alla presidenza. Per vedere se ha perso veramente i vecchi vizi bisogna invece aspettare la designazione del premier. Se crede in un cammino europeo, designerà un politico pronto ad appoggiarsi sull’unica maggioranza possibile, quella garantita dal partito democratico di Tadic e da quello socialista. Le due formazioni, nonostante il tracollo dei democratici di Tadic precipitati al 23%, sono le uniche a garantire una maggioranza stabile e concordano su un programma capace di portare Belgrado in Europa. Ma Nikolic potrebbe decidere di far saltare il banco e affidare l’incarico a uno dei propri uomini facendo valere la maggioranza relativa conquistata dal Partito Progressista alle elezioni del 3 maggio. In un paese dove la disoccupazione tocca il 24%, il reddito medio non supera i 400 euro mensili e il futuro dipende dallo sblocco di un prestito da un miliardo di euro garantito dal Fondo Monetario Internazionale, neppure il becchino Nikolic ha molti spazi di manovra.

Anche perché assieme all’Europa rischia di seppellire sette milioni di serbi.

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