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Strage in Connecticut, questa è la vera fine del mondo

Cosa può esserci di peggio di una violenza così e di quelle madri che piangono e chiedono: "È mio figlio sotto quel lenzuolo?"

Strage in Connecticut, questa è la vera fine del mondo

Era prevista per il 21 dicembre, invece la fine del mondo è arri­vata ieri. In una scuola in mez­zo ai boschi della Contea di Fairfield, nel Connecticut. A Newtown, 26.996 abitanti e redditi tra i più alti degli Sta­ti Uniti. Quei posti dove le madri ric­che accompagnano a scuola i loro bambini a bordo di grossi pick up e li vestono con scarpe robuste da bosca­ioli e camicie pesanti di pile perché non prendano freddo, un posto dove le tazze di caffè fuma­no contro l’aria gelida e i vicini di casa si conoscono tutti, dove si allevano labrador in giardino e ci si scambiano ciambelle di cortesia, dove gli alberi di Nata­le sanno di resina e marshmal­low, un posto dove si pensa di essere al sicuro. Ieri è arrivata la fine del mondo perché un uo­mo, o forse due, è entrato nella scuola elementare del paese e ha sparato cento colpi. Un odio fuori bersaglio che ha lasciato per terra ventisette cadaveri: venti erano di bambini. Un sa­pore ferroso di inferno, le sire­ne e poi le grida delle madri. Le ambulanze e il nastro isolante della polizia a tenerle indietro dalla verità, a ritardare il re­sponso. E l’orrore che intanto gli si arrampicava in faccia in mezzo a quel gelo, dietro a quel­lo scotch nero e giallo: «C’è mio figlio tra quei cadaveri? È mio fi­glio che è morto? », «Sotto a quel lenzuolo c’è lui o è toccato a un altro? Dio ti prego, ti prego, ti prego fai che sia un altro».

Ce li avevano lasciati da po­co, a scuola. Erano le 9.30 locali (le nostre 15.30): il sandwich per la merenda, il cambio per la ginnastica, lo zaino gonfio di tutto quello che serviva. Era tut­to a posto. Proprio a posto. E, a casa, loro, le mamme, erano già alle prese con l’asciugatrice e il comitato di quartiere per la fe­sta di Natale e la lista dei regali da comprare al centro commer­ciale. Perché quando i bambini sono a scuola le mamme hanno finalmente il tempo di pensare ai bambini.Perché l’unico mo­mento in cui le madri si sento­no innocenti per il proprio tem­po è quando i bambini sono a scuola. Perché a scuola ci devo­no andare, i bambini. E perché se non sono al sicuro a scuola, i bambini, allora chissà dove lo sono. Sono ore solitarie senza colpa. Le uniche. I banchi, l’ar­madietto, i quaderni, le mani pasticciate di colori che a fine giornata odorano di plastica da supereroi: è (solo) per mandar­li a scuola che ce li si strappa da in mezzo al petto la prima volta, i figli. Perché è così che deve an­dare ed è l’unica cosa contro la quale non puoi opporti.

Perché è lì che crescono e imparano e migliorano e diventano altro da te. «Ciao mamma, io vado» è davanti a un cancello con il sot­tofondo della campanella che te lo senti dire la prima volta. E certo non dovrebbe essere l’ul­tima. Invece lo è stata ieri, di nuovo: per venti madri e venti padri. «Ciao mamma, ci vedia­mo dopo... ». Come alla Colum­bine High School nel 1999, co­me in Virginia nel 2007, come a Beslan nel 2004, come in Alaba­ma a giugno... come tutte le vol­te che sono andati a prenderse­li a scuola i nostri figli. Li abbia­mo accompagnati lì e nessuno ce li ha più restituiti. Vita infa­me e morte ninfomane che non si ferma davanti ai cancelli e non rispetta la campanella.

Bisogna tenerseli in grembo, o addosso tutta la vita i figli.Per­ché non c’è riparo e non c’è pu­dore o logica. Natale, scuola, bambini, mamme, un pazzo ar­mato, il caso: allora ditelo che vale tutto. Che i nostri figli pos­sono morire a caso anche dove, quando, non dovrebbe succe­dergli proprio niente. Li aveva­mo vestiti pesanti e gli avevamo dato la merenda e gli stavamo comprando i regali e avevamo davanti una bella vita. E li abbia­mo portati a-scuola-e-dicia­mo- a-scuola-santo-cielo e non ce li hanno più restituiti. Ed è Natale ed era il nostro bambi­no e al centro commerciale ab­biamo trovato lo Spiderman che voleva e domani sera sareb­be arrivata la nonna e «ciao mamma, ci vediamo dopo» e sei anni fa ci stava dentro alla pancia e quanto mai non ce lo siamo tenuto dentro alla pan­cia, o in casa, o almeno in giardi­no col labrador, e il profumo delle sue mani e noi a fidarci di mandarlo a vivere...

«Sotto a quel lenzuolo c’è davvero il mio bambino? Dio ti prego, ti prego, ti prego fai che sia un altro».

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