«Cherchez la femme», ripeteva Alexandre Dumas. Stavolta non serve. È rimasta lì assieme alle sue due compagne, riversa nel fiume di sangue che inonda l'ufficetto al 147 di rue de Lafayette. Lì scivolando tra ristorantini, bar e fumosi bistrot, si davano appuntamento i frequentatori del «Centro d'informazione curdo». Era una delle tante sedi semi-clandestine usate dai fuoriusciti curdi per sfuggire ai controlli degli 007 turchi costantemente sulle loro tracce. Ma stavolta neppure la tradizionale neutralità di Parigi, neanche la folla del decimo arrondissement garantisce l'incolumità di Sakine Cansiz, donna simbolo del Pkk e delle sue compagne Fidan Dogan e Leyla Soymelez.
Gli amici curdi le trovano a mezzanotte di mercoledì sera quando - dopo ore d'inutili chiamate al cellulare - vanno di persona nella sede di Rue Lafayette. I cadaveri delle tre militanti sono appena dietro la soglia macchiata da un rivolo di sangue. Sulle cause della morte ci sono ben pochi dubbi. Due delle vittime sono state uccise con un colpo alla testa. La terza è stata ferita da un proiettile al torace e finita con una pallottola alla nuca. «Tre donne sono state abbattute
siamo senza dubbio davanti ad un'esecuzione. È un fatto grave, assolutamente inaccettabile», commenta lapidario il ministro dell'Interno francese Manuel Valls.
In quella scena da grand guignol quel che più conta è il corpo di Sakin Cansiz. Il suo è al tempo stesso il cadavere eccellente e la chiave del massacro. Nessuno ucciderebbe per caso una donna simbolo come lei. Famosa per aver fondato il Pkk assieme ad Abdullah Ocalan e ad aver guidato la lotta sulle montagne di Diyarbakir, Sakin Kansiz conosce fin dagli inizi degli anni Ottanta la spietata crudeltà della guerra civile, della tortura e della prigionia. Grazie al coraggio e alla fermezza con cui sopporta i lunghi anni di detenzione la pasionaria Cansiz diventa ben presto la più donna più importante e famosa del Pkk. Da lei dipendono tutti gli uffici all'estero, da lei prendono ordini molti dei comandanti politici e militari.
Per comprendere i motivi della sua uccisione bisogna dunque indagare assai in alto, scandagliare le pieghe del negoziato che da settimane coinvolgeva servizi segreti turchi e Abdullah Ocalan, il leader, padre padrone del movimento, prigioniero da 14 anni nella prigione sotterranea dell'isola di Imrali. La prima fase della trattativa si era conclusa 48 ore prima del massacro di Rue Lafayette con un accordo quadro basato sulla sospensione delle ostilità in cambio di concessioni alla minoranza curda in Turchia e l'esilio in Europa dei comandanti del Pkk coinvolti nell'ultima stagione di combattimenti.
L'accordo faceva gola soprattutto al leader turco Erdogan. Il premier, dopo aver armato e addestrato i ribelli siriani, si era ritrovato a combattere i nemici del Pkk insediatisi nei territori siriani di frontiera dopo il ritiro dall'esercito di Damasco. L'accordo per il cessate il fuoco raggiunto con Ocalan consentirebbe al premier turco di continuare ad appoggiare i ribelli in lotta con il regime di Bashar Assad evitando l'escalation di attentati curdi che aveva, nei mesi scorsi, gravemente danneggiato la reputazione di Erdogan.
La decisione di Ocalan di abbandonare al proprio destino la componente siriana del movimento e puntare ad un accordo con la Turchia in cui inserire, magari in un futuro non lontano, anche la propria scarcerazione, non era stata ben digerita da alcuni comandanti del Pkk. Di sicuro non faceva dormir sonni tranquilli a Ferman Hussein, il comandante curdo di origini siriane considerato il capo dell'ala militare del Pkk.
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