Xi Jinping, un ex «principino rosso» per la solita Cina

Giacca blu navy a due bottoni, camicia bianca e cravatta rossa (ammesso il bordeaux). A guardarli, impalati sull'attenti come tanti soldatini, le facce di marmo e il loro bravo cartellino da delegati (rosso, s'intende) spillato sul petto, circondati da un dècor floreale in rosso, fanno perfino tenerezza. Però inquietano, anche, un pochino. Come un esercito di replicanti senz'anima venuti dal passato. Ricordano epoche di Congressi comunisti sepolte nella memoria - Breznev e Ho Chi Minh, Mao Tse Tung e Todor Zhivkov, applausi ritmati e maggioranze bulgare, appunto - dove l'uniforme non era solo un aggettivo ma un modo di essere, un sentimento. Una volta, a Pechino e dintorni, era la giacchetta grigioverde abbottonata fino al collo di Mao. Ora (ma è così dalla fine degli anni Ottanta) va una mise soi disant occidentale. Come quella ostentata ieri dai delegati al XVIII congresso del Partito Comunista Cinese, convenuti al plenum di Pechino per l'elezione di Xi Jinping al vertice del partito e dell'esercito.
Molto è cambiato in Cina ma non lo stile «old Cremlin» che caratterizza lo spirito e la cultura della sua classe dirigente. Giacche e cravatte come una divisa più adatta ai tempi, un look meno austero e in linea con l'apertura all'economia di mercato che ha impresso la formidabile accelerazione che sappiamo al Paese che ha corso più di tutti nell'ultimo decennio; mentre le teste dei dirigenti ribadiscono che nonostante i tempi siano di tumultuosa transizione, il PCC è più che mai determinato nel mostrare compattezza, disciplina e fedeltà alla linea. Perché le parole d'ordine che si intende veicolare al mondo son sempre quelle: unità, continuità, stabilità di un sistema in cui anche gli avventurismi sartoriali sono inappropriati.
Sette sono i componenti della nuova leadership, mentre in precedenza erano nove. Gli altri capataz che faranno corona a Xi Jinping sono Li Keqiang, indicato come prossimo primo ministro; Zhang Dejiang, vice premier; Yu Zhengsheng, segretario del partito di Shanghai; Liu Yunshan, capo della propaganda (sì, c'è ancora un capo della propaganda); Wang Qishan, vice premier; Zhang Gaoli, segretario del partito di Tianjin.
Nato a Pechino nel 1953, Xi Jinping è un «principino», ovvero il rampollo di uno dei leader della rivoluzione, quel Xi Zhongxun poi caduto in disgrazia. Anche a lui, al tempo, toccò piegare il groppone e recarsi in campagna, nella provincia dello Shaanxi per «imparare dalle masse», come voleva il Verbo del Partito. Poi, mentre le masse restavano in campagna a far massa, come sempre, Xi Jinping se ne andò a studiare ingegneria chimica all'università «per i figli di» a Tsinghua. Sposato in seconde nozze con la cantante folk Peng Liyan, Xi ha dovuto per lungo tempo accettare il ruolo di comparsa in un menage in cui i flash e le telecamere erano per lei. Ora, naturalmente, la musica cambierà anche in famiglia.
Dicono che Xi Jinping ami i film di guerra americani e quelli del regista indipendente Jia Zhangke. Una sua figlia studia ad Harvard e pare che una delle sue sorelle viva in Canada. Un «amico dell'Occidente», verrebbe da dire. Ma forse è più prudente pensare a lui come a un continuatore della linea inaugurata da Jaobang alla fine degli anni Ottanta e ampliata dalla «rivoluzione liberale» di Deng Xiao Ping, il «padre del risveglio cinese».

La Cina è «open for business», per dirla all'americana, ma il sistema politico è quello impeccabilmente descritto dalla fotografia dei delegati sull'attenti, in giacca a due bottoni e cravatta rossa. La linea non cambia, perché tutto il resto possa cambiare.

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