Cultura e Spettacoli

Eugenio di Savoia, flagello dell'islam

In La cacciata dei musulmani dall'Europa di Lucio Lami la figura portante è il principe sabaudo che guidò l'esercito austroungarico

Eugenio di Savoia, flagello dell'islam

Milano - «Questo libro di storia getta nuova luce sul dibattito politico di oggi» è scritto nella controcopertina di La cacciata dei musulmani dall’Europa (Mursia, pagg. 228, euro 18). Non so fino a qual punto l’ultima fatica di Lucio Lami, dedicata a momenti remoti ma decisivi per l’Europa, possa aiutarci a capire i termini attuali dello scontro tra islam e cristianesimo. I popoli, i governanti, e anche i commentatori riluttano a far tesoro delle esperienze del passato, o cercano di adattarle alle esigenze polemiche del presente.

Ma - sia o no vera la sua efficacia didascalica - il saggio di Lami è comunque da non perdere: perché scritto bene e ha un protagonista affascinante. Quel principe Eugenio di Savoia che, nato a Parigi nel 1663 da genitori italiani, ebbe un’infanzia francese e immense glorie militari nell’impero austriaco. Eugenio era figlio di Olimpia Mancini, una delle tre nipoti che il cardinale Mazzarino aveva chiamato a sé dall’Italia, e di Eugenio Maurizio di Savoia-Carignano, conte di Soissons, generale delle armate di Francia. Quinto figlio di Olimpia, il piccolo Eugenio non era stato favorito da madre natura. Brutto, basso, mingherlino, «un ragazzo mai in ordine, trasandato, dal quale non ci si aspettava nulla di buono». Pareva destinato alla carriera ecclesiastica. Abbracciò invece, con capacità e fortuna straordinaria, quella delle armi, ma fu un principe guerriero senza donne in ambienti di corte pullulanti di abati e vescovi piuttosto libertini.

Non indugio sulle vicende grazie alle quali il giovane di discendenza savoiarda divenne generalissimo dell’esercito di Vienna, né sulla risonanza delle sue memorabili vittorie (trentamila i morti turchi e trecento i morti imperiali nella battaglia di Zenta). La sanguinarietà degli scontri, da entrambe le parti, era superata solo dalla ferocia con cui i sultani reprimevano congiure e si sbarazzavano di avversari e rivali. Ahmed III, salito al trono dopo che il trattato di Carlowitz ebbe sancito la sconfitta ottomana, procedette a una pulizia spietata. Volendo sbarazzarsi di Caracash Mehmed, l’uomo che aveva acquisito popolarità capeggiando la rivolta contro suo fratello, lo promise pascià, lo spedì alla Mecca con l’onorifico incarico di consegnare un donativo allo sceriffo dei Luoghi santi, e sulla via del ritorno gli fece trovare sicari muniti dei lacci rossi che contrassegnavano la condanna capitale. Poi si occupò dei potenti e irrequieti giannizzeri. «Ci vollero cinque mesi per le esecuzioni ma, alla fine, tutti i quattordicimila insorti furono giustiziati».

L’Occidente era molto meno unanime di quanto si volesse far credere nella lotta all’Islam. Luigi XIV, monarca che era sfolgorante di luce solare nelle cerimonie, ma che dissanguava la Francia con un’interminabile catena di conflitti, strizzava l’occhio alla Sublime porta, e a volte apriva le ostilità con l’impero. Di fronte a lui Leopoldo I d’Austria appariva insicuro e abulico: ma a spronarlo provvedeva quel predicatore cappuccino Marco d’Aviano che s’era conquistata la fiducia dell’imperatore, e che non gli faceva mai mancare appelli guerrafondai. «Procuri intanto Vostra Maestà che nella prossima campagna li suoi eserciti sino in campagna per li primi di maggio, et ciò lo faci in tutti i modi, avendone Vostra Maestà Cesarea chiaramente veduto quali danni ha causato ne li anni passati la tardanza... Facendosi presto Vostra Maestà Cesarea acquisterà Belgrado, tutta la Serbia, Bosnia, Bulgaria, Ungaria, Schiavonia, Transilvania, Moldavia et Valachia, et caciar il turco di là di Adrianopoli e poi far pace con tutti li avantaggii». Una testa fina questo Marco d’Aviano e magari anche un sant’uomo.

Ma di sicuro non un pacifista.

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