
Era il 1976. L’anno in cui la RAI trasmettava ancora le partite in differita e i tennisti si portavano appresso la racchetta di legno, quasi fosse un’estensione del braccio. L’anno in cui Adriano Panatta – romano, figlio del custode del Circolo del Tennis Parioli, talento irregolare e incantevole – diventò re di Francia. Dominatore del Roland Garros. L'ultimo italiano a riuscirci, e non in un modo banale: Adriano montò in cattedra sbattendo fuori, uno dietro l'altro, giocatori di caratura mondiale. Borg, Vilas, Orantes, Ashe: tutti delicatamente accompagnati all'uscita più vicina. Tutti convinti di giocarsi il trono messo in palio dalla terra rossa parigina, senza aver prima fatto i conti con lui, Panatta, fresco vincitore agli Internazionali di Roma, bello come un attore, istintivo, elegante, con la maglia Fila sbottonata e quel tennis ostinato fatto di volée e attacco che sembrava una sfida personale all’epoca che avanzava.
Arrivò a Parigi da ottava testa di serie, due giorni dopo il trionfo agli Internazionali, provato ma ancora caldo, come se non avesse fatto in tempo ad uscire dal campo. Al primo turno, quasi va fuori. Il cecoslovacco Pavel Hutka lo mette alle corde, si prende il primo set, lo annienta nel quarto con un 6-0, si procura addirittura un match point. Ma Panatta tira fuori una volée in tuffo, il colpo della carriera, e da lì non si guarda più indietro: vince 12-10 il quinto, sopravvive e comincia a crederci.
Elimina poi il giapponese Kuki, il ceco Hrebec, lo jugoslavo Franulovic. E ai quarti trova Björn Borg, il campione dei campioni, glaciale e letale, già due volte re di Parigi e a caccia della terza. Il match è il vero spartiacque. Stile contro solidità, Panatta contro l’Orso svedese, il tennis ricamato del nostro contro la maratona e le fucilate da fondo campo. E qui succede l’impossibile: Adriano domina i primi due set (6-3, 6-3), lascia il terzo, ma chiude il quarto al tie-break. Un capolavoro. E soprattutto: l’unica delle due sconfitte che Borg subirà mai al Roland Garros. L’altra? Sempre Panatta, tre anni prima. Questione di destino.
In semifinale c’è Eddie Dibbs, specialista della terra, difensore di quelli che non sbagliano mai. Ma quel giorno Panatta è di un altro pianeta: 6-3, 6-2, 6-4. Senza esitazioni. Senza paura. In finale lo aspetta Harold Solomon, americano tarchiato e testardo, che aveva già affrontato a Roma in una partita rovente. Stavolta non c’è bisogno di polemiche né di arbitri: sul campo centrale di Parigi, Panatta lo annienta nei primi due set (6-1, 6-4), perde il terzo 4-6, ma chiude ancora al tie-break nel quarto. 7-3. Il match è suo. Il trofeo è suo. La Coppa dei Moschettieri torna italiana dopo Pietrangeli. E lì rimane, ancora oggi, quasi mezzo secolo dopo.
Quel 14 giugno 1976, Panatta divenne re di Francia. A suo modo: da Adriano. Con leggerezza, coraggio ed estetica imperfezione. Non era un cyborg del tennis, Panatta, non lo è mai stato. Era un artista. Il suo talento non l’ha scolpito la fatica, ma il tocco. Non si allenava per diventare numero uno, ma per sentirsi libero in campo. E in quell’anno benedetto vinse Roma, Parigi e a dicembre portò l’Italia a vincere anche la Coppa Davis in Cile. Nessuno, fino a Sinner, era mai andato vicino a lambire simili traguardi.
Oggi, ogni volta che un italiano arriva ai quarti o in semifinale a Parigi – da Barazzutti a Cecchinato, da Sinner a Musetti– il nome che torna è sempre il suo.
Panatta. L’ultimo. L’unico. Perché il tennis italiano, sulla terra rossa di Parigi, non ha mai avuto un sovrano così. Nell'ormai lunga stagione che ci ha visto tornare dominanti, attendiamo con trepidazione il suo erede.