Il giorno dopo lo choc del «no» irlandese nel referendum sul Trattato di Lisbona è già tempo di rese dei conti. E nel mirino finisce, a livello comunitario, il commissario europeo Josè Manuel Barroso, e a Dublino il premier Brian Cowen. Laccusa per entrambi è la medesima: non avere comunicato adeguatamente con i cittadini, mancando lobiettivo di far sentire le istituzioni e i trattati europei come qualcosa di positivo per loro e non invece, come è accaduto in Irlanda e più in generale sta accadendo in Europa, di astruso e inaffidabile.
Lincombente processo politico a Cowen, crocefisso dalla stampa irlandese che lo incolpa di aver pessimamente gestito una campagna elettorale in cui nessuno tranne gli ultranazionalisti dello Sinn Fein si era schierato per il «no», è una questione interna della piccola Repubblica atlantica, che ora teme lisolamento in Europa. Altra cosa è la partita che vede protagonista, suo malgrado, Barroso. In questo caso il grande accusatore è il presidente francese Nicolas Sarkozy. LEliseo ha puntato forte sullimminente semestre di presidenza di turno che spetta a Parigi e certamente lo scacco irlandese brucia a Sarkozy. Il quale peraltro intende cogliere loccasione per indebolire Barroso, cui vuole accollare parte della responsabilità del disastro. «Molti europei - ha detto ieri Sarkozy in una conferenza stampa con il presidente degli Stati Uniti George W. Bush al suo fianco - non capiscono il modo in cui costruiamo lEuropa in questo momento. Vedo il no irlandese come un appello a fare di più e meglio e a trovare insieme le soluzioni». Altra musica rispetto a quella suonata da Barroso, che ha invece detto di aspettare delle risposte «dal governo irlandese», proprio quello che è stato sconfessato dai suoi stessi elettori.
Sarkozy si rivolge dunque ai cittadini - irlandesi e non solo - e anticipa le linee guida di quello che vuol essere un semestre teso a riavvicinarli agli ideali e alle istituzioni europei. Premettendo che considera comunque «importante che il processo di ratifica del Trattato di Lisbona giunga al suo termine», il presidente francese assicura tra laltro di voler rendere chiara ai cittadini dellUe «una politica europea dellimmigrazione e una risposta europea allaumento senza fine dei prezzi del petrolio». E conclude dicendo di aver colto il messaggio inviato dagli irlandesi e impietosamente sottolineato ieri dalla stampa di tutto il Continente: «Abbiamo il dovere di essere più efficaci al servizio della vita quotidiana degli europei».
Intanto, le diplomazie sono al lavoro. E nonostante sia evidente che le questioni di peso saranno affrontate dopo il 1° luglio, data in cui lattuale presidenza di turno slovena passerà le consegne a quella francese, la discussione sul dopo-Dublino è avviata. Domani a Lussemburgo ci sarà lincontro dei ventisette ministri degli Esteri dellUnione, con il tema principale obbligato: si parlerà delle possibili vie duscita dal disastro del referendum irlandese. Premesso che lobiettivo comune è quello di continuare il percorso delle ratifiche (Irlanda a parte, sono otto i Paesi che devono ancora farlo per via parlamentare, e tra questi lItalia), le opzioni sul tavolo sono almeno quattro: far svolgere un nuovo referendum in Irlanda; abbandonare il Trattato di Lisbona, tornando così allo status quo rappresentato da quello di Nizza; rinegoziare il Trattato di Lisbona; puntare alla cosiddetta «Ue a due velocità».
La prima opzione raccoglie al momento i maggiori consensi. Tra laltro già nel 2002 gli irlandesi furono chiamati a votare una seconda volta sul Trattato di Nizza che avevano respinto. Ma come minimo sarebbe necessario ritoccare il documento su misura per lIrlanda, sempre ammettendo che Dublino sia daccordo. Il ritorno al Trattato di Nizza piace poco perché costringerebbe lUnione a rifare i conti con vecchi e seri problemi sulla politica estera, lallargamento, il funzionamento delle istituzioni e il processo decisionale: un passo indietro, insomma.
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