Europei, questo non è un gioco per vecchi

Non è la madre di tutte le partite: è la nonna di tutte le partite. Vecchie e sfinite, all'esaurimento di un'epopea parallela, le due grandi nazionali del mondo e d'Europa si ritrovano a Zurigo per decidere chi possa concedersi l'ultimo ballo, prima di ritirarsi a vita privata, con il ciglio umido per la nostalgia. Bene che vada, una avanti per disperazione, l'altra fuori in un clamore di insulti. Sempre che alla fine non siano poi costrette dalla Romania a ritirarsi mestamente assieme, nello stesso momento, accomunate ancora una volta dal medesimo destino: un tempo di glorie e di successi, ora di umiliazioni e di rimpianti.
Pare che il tempo sia galantuomo. Ma quando vuole sa essere anche una simpatica canaglia, perché con i suoi modi beffardi e impietosi finisce sempre per irridere chi va in là con l'età. Fino all'altro giorno bellissime e corteggiate, Italia e Francia si ritrovano all'improvviso racchie e megere. Non c'è lifting che possa salvare questa rapidissima decadenza. Per puro miracolo, entrambe potrebbero ancora vincere l'Europeo. Anche Nilla Pizzi, per pura ipotesi, potrebbe rivincere Sanremo. Ma neppure l'improbabilissimo evento di un senile successo riuscirebbe più a mascherare l'evidenza del declino. I nomi e i volti che hanno segnato la storia degli ultimi dieci anni sono ormai desueti, polverosi, superati. E il problema è che si fatica a vederne di nuovi.
Guardandole una di fronte all'altra, Italia e Francia pagano chiaramente gli stessi difetti: faticano a cambiare. A provare qualcos'altro. Preferiscono vivere di rendita, finché dura. Fino a quando l'inevitabile vento della novità non arriva a spazzare via tutto, altarini, blasoni, grandeur, rivoluzionando completamente le gerarchie del sistema. Non è neanche tanto azzardato leggere nei segni dello sport gli stessi segni di questa era europea. Ci sono nazioni che corrono, ci sono nazioni che avanzano, ci sono nazioni che esprimono tutte le novità dei tempi. Che hanno ancora il gusto e il coraggio di provare. Poi ci sono loro, Italia e Francia, considerate sempre grandi, però ora sfiatate e impedite, terribilmente a disagio in queste nuove vesti di derelitte d'Europa. Se davvero il calcio non vive di vita propria, ma è espressione diretta della vita di un Paese, non è poi così stravagante ritrovare Olanda, Spagna e Portogallo, per non dire la stessa Turchia, così vivaci, spigliate, entusiaste. Le nazionali si portano inevitabilmente in campo lo spirito della propria terra. Italia e Francia, dove da tempo si fatica a spostare uno spillo, ad abbattere caste e privilegi, a smuovere la palude di società ferme, vecchie, arroccate, portano in campo la loro noia opulenta e il loro pessimismo nichilista. La loro sfiducia e il loro scetticismo. Cioè tutti i virus che da tempo ormai impediscono il piacere della riscossa. Sopravvive soltanto la presunzione di dover primeggiare per decreto superiore. O per antica reputazione. Come se bastasse il diritto acquisito, o la bella fama del tempo che fu, a far girare la palla. A far girare il mondo.
Stasera, ultimo atto. Incontro patetico e impietoso, a mani nude. Due grandi vegliarde buttano in campo tutto quello che rimane di antiche aristocrazie. Vince chi resta in piedi. Sempre sperando che la Romania, un'altra nazione-nazionale dal cuore giovane, non renda inutile l'immane sforzo.


Un tempo si sarebbe detto: Italia-Francia, è già una finale. Stavolta nessuno ha più il coraggio di enfatizzare. Non è una finale: è solo un finale. Appuntamento all'ultimo stadio di Zurigo. Benvenuti al derby delle babbione.
Cristiano Gatti

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