«Evgenij Onegin» alla Scala Cajkovskij in chiave intimista

L’ultima rappresentazione nel 1986 diretta da Seiji Ozawa con la Freni

Elsa Airoldi

Torna Onegin, un evento. Per l’ultima volta dobbiamo infatti andare indietro di vent’anni. Quando, sotto la direzione di Seiji Ozawa, Mirella Freni offre recite memorabili. Anche prima dell’86 la presenza del titolo è tuttavia rarissima. Dopo il battesimo con Toscanini, nel 1900, troviamo solo un Rodzinskij del ’54 e l’inclusione tra le cinque opere e il balletto proposti alla Scala dalla tournée ’73 dei complessi del Bolshoj. In quell’occasione la scena è tenuta dai due colossi vocali Galina Višnevskaja (moglie di Rostropovic) e Vladimir Atlantov.
Perché tanta avarizia? Perché Onegin, massimo concentrato di lirismo intimistico, è un’opera troppo poco spettacolare per il pubblico e troppo ingrata per i cantanti. Ai quali si chiede sobrietà canora e grande espressività. Non a caso il titolo, strutturato in sette scene liriche, privo di motivi conduttori e vocalmente un po’ monocorde è stato accusato di scarsa drammaticità. Resta tuttavia il capolavoro del teatro operistico cajkovskijano accanto alla Dama di Picche. Psicologico il primo e surreale la seconda. Anche qui Cajkovskij si discosta dell’estetica dei cinque per abbracciare i modi della musica francese, italiana, tedesca... Sebbene a ben guardare i momenti più veri siano poi quelli dove l’anima russa del compositore rivendica i suoi diritti.
La genesi di Evgenij Onegin, ricavato da Puskin, corre parallela alla stesura dei primi balletti. Un genere dove forse la vena lirica, appassionata e decadente dell’autore si muove con maggior agio. E dove anche la tavolozza timbrica appare più ricca e la drammaturgia più dinamica.
La vicenda di Onegin è una storia di sentimenti, di quelli che esistono veramente e Cajkovskij sa bene. Perciò i cantanti devo essere prima di tutto attori, la regia ha il compito di ampliare le pulsioni interiori, il maestro concertatore deve saper leggere nell’animo umano.
Conosciamo la sottile musicalità del giovane Vladimir Jurowski, un figlio d’arte noto in città per la sua assiduità con la Verdi. E sappiamo l’essenzialità minimalista dall’allestimento che arriva da un Glyndebourne ’94 con la regia dell’inglese Graham Vick. Un nome affermatissimo. Uno che oltre a Outis ha già consegnato alla Scala uno splendido Macbeth (quello col cubo ruotante) e un altrettanto superbo Otello. Che imprigiona nella struttura cilindrica l’avvitarsi su se stessa e il crescere della gelosia del Moro.
Di Vick anche l’infelicissimo Flauto visto la scorsa estate a Salisburgo. Una scivolata alla quale forse Muti, che riprende il titolo nell’anno mozartiano al via, o più probabilmente il caso, hanno comunque provveduto. Vick adatta dunque al palcoscenico della Scala la regia pensata per un teatro più piccolo.
L’ambientazione è ancora una volta una scena fissa che si adatta al mutare delle situazioni con impercettibili tocchi. La grande stanza chiara e vuota offre un tavolo al dialogo Larina-njanja, diventa camera di Tat’jana mettendo in fila, di sfondo, un letto, una finestra, un lume di candela. E giardino (dove la protagonista viene rifiutata da Onegin) con una sedia. Qualche poltrona per il Leitmotiv dei balli e un gioco di sipari mobili per il palazzo di Gremin. Quegli spazi praticamente vuoti sbalzano uomini e sentimenti. La garrula Ol’ga. L’ombroso Onegin, dandy pietroburghese malato di spleen. L’appassionata Tat’jana. I contadini, la nobiltà...
Spaccato sociale e rappresentazione introspettiva il primo Onegin consegna la recita del marzo 1879 al Conservatorio di Mosca e ai suoi allievi. Quindi, ampliato, debutta al Bolshoj nel 1881. Jurowski opta per la prima versione.

Alla Scala, con i costumi stilizzati e di segno ottocento di Richard Hudson e il contrappunto fondamentale del coro di Bruno Casoni, sono previsti due cast. Nel primo Tat’jana è Olga Guriakova, Onegin Ludovic Tézier, Ol’ga Nino Surguladze, Lenskij Giuseppe Sabbatini, Gremin Lazlo Polgar.

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