«Gli ex Bierre? Condannateli al silenzio sociale»

Il giorno dell’omicidio era a scuola: «Mi chiamarono in presidenza, ho capito subito quello che era successo»

Stava scrivendo il compito in classe di italiano quella mattina. Era il 17 febbraio 1981 e Francesca Marangoni aveva scelto il tema sul terrorismo. «E poi all’improvviso sono venuti a chiamarmi in classe e io non capivo perché». La sua aula stava al piano terra del liceo Beccaria, la presidenza, invece, al primo. Scalino dopo scalino, «mi sembra di vedermi, mentre salivo le rampe e mi facevo mille domande. Se ci ripenso ora, capisco che quello è stato l’ultimo momento della mia vita di prima. Poi, tutto è cambiato».
Erano le 8.20 quando Samuele Zellino sparò a suo padre. Come ogni mattina, Luigi Marangoni stava uscendo con la sua auto dal garage per andare al Policlinico, l’ospedale di cui era direttore sanitario. Il commando della brigata Walter Alasia lo stava aspettando: erano in tre, armati di mitra e lupara. Quando la moglie Vanna sentì gli spari pensò ai botti di carnevale, poi dalla finestra vide la macchina ferma prima del cancello. Immediatamente, capì cos’era successo. Scalino dopo scalino, ma quella rampa lei la fece di corsa, ancora in camicia da notte e vestaglia: fu la prima ad aprire la portiera della macchina. La prima, a trovarlo ricoperto di vetri e del suo sangue che continuava a scendergli dalla nuca. «Ho capito subito che era morto - ricorda Francesca - anche se in un primo tempo mi dissero che era solo ferito». Ha 45 anni adesso, due splendidi bambini di 5 e 8 anni e, come suo padre, lavora al Policlinico, proprio nel padiglione che gli hanno dedicato. Ogni tanto mentre racconta si prende delle pause e i suoi occhi azzurri si perdono nel vuoto. «Per molto tempo non ne ho voluto parlare e ora che sono più grande dei miei genitori a quel tempo, mi rendo conto che forse avrei potuto stare più vicina a mia madre. Ma allora non ero pronta, dovevo fare un percorso». Lo stesso percorso che l’ha portata a provare «un affetto fraterno» per la famiglia Calabresi, ritornata al centro delle polemiche in questi giorni dopo l’articolo di Adriano Sofri su Il Foglio. «L’ho letto - racconta Francesca - e se dal punto di vista umano mi sembra comprensibile che un condannato continui a dichiarare la propria innocenza, non mi sembra il soggetto più indicato a insegnarci la storia e trovo triste e particolarmente sgradevole che deputati della Repubblica e giornalisti gli riconoscano il diritto di delineare un profilo politico e soprattutto morale».
Una mattina stava accompagnando suo figlio all’asilo quando ha incontrato «quell’uomo». Il nome non lo ricorda «ma il volto quello sì, sono molto fisionomista». Faceva parte della brigata Alasia e per la prima volta, l’aveva visto al processo nell’aula bunker di via dei Filangeri, a San Vittore. «Mi è capitato di incontrarlo più volte, ma non ho mai avuto il coraggio di fermarlo e questa cosa mi fa tremendamente arrabbiare. Avrei voluto dirgli “io lo so chi sei. Eri nella gabbia“. Tutto qui. Però avrei voluto farlo». Insieme a lui in quell’aula ce n’erano tanti di brigatisti, «facevano una gazzarra incredibile, sembrava non gliene importasse niente del processo, un giorno una coppia si mise addirittura a fare sesso, lì davanti a tutti».
In questi anni, lei e la sua famiglia sono sempre rimasti fuori dalle polemiche sulla vita degli ex terroristi. «Non mi interessa. Non voglio sapere cosa fanno e dove vivono. Penso semplicemente che dovrebbero essere condannati al silenzio sociale». Si ferma e poi aggiunge: «Non vedo perché dovrebbero essere aiutati più di altri criminali. Ben venga se si sono pentiti, ma questo non mi restituisce ciò che mi hanno tolto, non dà un senso alla morte di mio padre». La innervosisce l’idea che qualcuno possa pensare che abbiano qualcosa da dire: «In quell’aula credevo di trovarmi davanti delle persone determinate, con delle convinzioni serie. E, invece, sembravano un gruppo di ragazzini in gita scolastica, completamente incoscienti». Lo Stato? «L’anno scorso mi ha scritto Napolitano e mi ha fatto molto piacere. Se lo avessero fatto anche prima, magari ogni anno a Natale, per noi sarebbe stato importante». E con quel noi pensa a tutte le famiglie delle vittime del terrorismo rosso.
La «colpa» attribuita a Luigi Marangoni: essere un «servo dello stato e della Dc». Recitava così un volantino che i brigatisti avevano fatto girare per l’ospedale qualche giorno prima del suo assassinio. Fu un’infermiera della colonna ospedaliera a segnalarlo: il direttore sanitario aveva testimoniato contro gli infermieri che avevano compiuto delle azioni di sabotaggio all’interno dell’ospedale e questo non gli fu mai perdonato. «Aveva paura di essere gambizzato. Smise di accompagnarmi a scuola per non fare sempre lo stesso percorso». Un giorno, appena uscita dal condominio di fronte allo stadio di San Siro, Francesca vide un uomo davanti a casa, «ci feci caso perché stava fermo a fissare lo stabile». Dopo l’assassinio del padre, raccontò di quell’incontro alla polizia, li aiutò a farne l’identikit e poi si scoprì che era stato il «palo», anche durante l’agguato.

Il 17 febbraio, quando Francesca uscì di casa, suo padre non si era ancora svegliato. «Passai in corridoio e la porta della sua stanza era aperta. Come sempre dormiva da un lato, rivolto verso la finestra e io lo vidi così, anche quella mattina. Per l’ultima volta».

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