Fa il Giro d’Italia in mare a forza di braccia sul kayak degli eschimesi

Tra ’81 e ’82 circumnavigò la Terra su uno yacht a vela Adesso può contare solo su se stesso. Partito sabato scorso da Trieste, spera di arrivare a Ventimiglia per Ferragosto Spendendo 3 euro al giorno...

Tutto ciò di cui ha bisogno in questo momento per vivere sta in tre buchi chiusi ermeticamente, in gergo chiamati gavoni, ricavati in uno scafo lungo 550 centimetri e largo 53, del peso di appena 28 chili: le barrette di cereali e la mela da sgranocchiare di giorno, il fornelletto a gas per prepararsi la pasta in bianco la sera, una piccola tenda per ripararsi di notte nei tratti di costa in cui non ci sono porti, il materassino, il sacco a pelo, un lavandino pieghevole per lavarsi la mattina. Un attimo prima di riprendere il mare, Guido Grugnola si rende conto che per la Levissima da mezzo litro non c’è posto. Allora beve controvoglia metà del contenuto, poi schiaccia le pareti di plastica l’una contro l’altra e serra il tappo. Ecco, trasformata in una specie di sogliola, ora la terza bottiglietta di acqua minerale può essere infilata dietro il sedile. Il navigatore solitario alza la pagaia doppia in segno di saluto e se ne va.
Fino a estate inoltrata, ma forse sarà già alle porte l’autunno, basterà davvero poco a Guido Grugnola per vivere: meno di 10 euro ogni due o tre giorni, ché per la piccola spesa quotidiana non ci sarebbero né spazio né tempo. Va di fretta, Guido Grugnola: è partito sabato scorso da Trieste, al confine con la Slovenia, e conta di arrivare per Ferragosto a Ventimiglia, al confine con la Francia. Ma sa bene che il traguardo finale dipende soltanto in minima parte dalla bravura del regatante, assai di più dai venti, dalle onde, dalle tempeste, dalle maree, dall’acqua salmastra che gli scorticherà le mani, dal sole che a una settimana dalla partenza gli ha già cotto il viso, conferendogli, complici gli occhiali protettivi, un aspetto da procione invertito, è questa la definizione che m’è venuta spontanea vedendolo, e lui s’è messo a ridere per l’involontaria gaffe, perché da persona intelligente ha capito subito che cosa intendevo dire: bianco il contorno degli occhi, nero il resto della faccia, insomma la colorazione inversa del muso dell’orsetto lavatore.
Mare nostrum lo chiamavano i Romani. Ma quant’è ancora nostro, cioè trattato con la cura e il rispetto dovuti alle cose care, di casa? È questo l’interrogativo al quale Grugnola, professionista milanese che il 27 maggio festeggerà nel Mediterraneo i suoi 53 anni, s’è messo in testa di dover rispondere - nel 150° anniversario dell’Unità - col più azzardato Giro d’Italia che sia stato mai concepito da mente umana: 114 giorni da solo su un kayak, la canoa degli eschimesi, per circumnavigare lo Stivale attraverso Adriatico, Ionio, Stretto di Messina e Tirreno, fino al Mar Ligure. Circa 2.000 miglia, più di 3.700 chilometri, a forza di braccia, lubrificate ogni mattina con qualche pillola di acido ialuronico per rimpiazzare l’olio di gomito bruciato il giorno prima. Un racconto emozionante che si può vivere quotidianamente in presa diretta sul sito Rounditalycruise.it attraverso filmati, foto e testi. Senza fini di lucro e senza sponsor commerciali, a parte un’azienda di prodotti informatici che gli ha dato il computer portatile necessario per aggiornare il blog. Contando solo sull’ospitalità dei circoli nautici per la notte e sull’amicizia della gente di mare, come Giampaolo e Piero, «bastano i nomi», comandante e capo macchina del rimorchiatore che all’uscita dal porto di Trieste lo hanno salutato con «le fontane», due imponenti e scenografici getti d’acqua.
Poteva scegliere di compiere la sua straordinaria impresa con tutt’altro mezzo, il prode Grugnola, 68 chili di peso lui più altri 60 di materiale stivato in quegli angusti spazi che, sommati insieme, arrivano a malapena alla capienza del bagagliaio di una Volkswagen Golf. Per esempio con uno yacht. In fin dei conti dal 1976 al 1991 è stato regatante professionista nelle classi Ior, su barche a vela lunghe da 9 a 24 metri, con equipaggi da 5 fino a 24 persone; ha disputato 21 campionati italiani e 16 campionati del mondo; era sulla Brava che nel 1983 arrivò seconda nella leggendaria Admiral’s Cup; sulla Rolly Go dell’armatore Giorgio Falck ha partecipato fra l’agosto 1981 e l’aprile 1982 alla Whitbread Round the World Race, il giro del mondo in 28.000 miglia: 30 equipaggi salpati da Portsmouth, un terzo dei quali mai arrivati nel porto da cui erano partiti otto mesi prima. Invece ha scelto la canoa degli inuit del Polo Nord, «perché qualsiasi altro tipo d’imbarcazione, da pesca, da carico o da trasporto, si è modificato nel corso dei secoli, mentre il kayak è rimasto uguale a 5.000 anni fa, basso sull’acqua, chiglia lunga, un mezzo molto marino che tiene il vento e ha il non trascurabile pregio di costare appena 1.800 euro, quindi alla portata di tutti».
Grugnola ha nelle vene sangue artico. «Mia nonna, Ruth Bierkmann, era svedese. In Germania conobbe il futuro marito, Julius Brioschi, austriaco. Una famiglia di scenografi che, prima di trasferirsi a Milano, lavoravano per l’Opera di Vienna». Il bernoccolo artistico è stato tramandato al nipote. Dopo gli studi in ingegneria, s’è dedicato alla progettazione grafica e ha curato la comunicazione di Wally Yacht. Per l’azienda cantieristica di Montecarlo ha persino creato un font, il Wally appunto, un carattere di stampa esclusivo che fa il paio col Cordenons, che ha disegnato per l’omonima cartiera friulana. Divorziato, convive con Rossella, madre di due figli: «Riesco a sentirla solo la sera, quando accendo il cellulare, grazie a un pannello solare pieghevole da 60 watt che carica una batteria a ioni di litio in grado di alimentare anche le due telecamere fissate sulla prua e sul casco protettivo, la macchina fotografica, il pc, la radio per comunicare con le capitanerie di porto, il navigatore satellitare».
Barca eschimese, ma attrezzatura ipertecnologica.
«Il più importante è il tracker, un localizzatore che a ogni ora fissa la mia esatta posizione sulla carta geografica visibile sul sito. Premendo un pulsante posso inviare una richiesta di aiuto a una serie di numeri telefonici e indirizzi mail. Premendone un altro parte l’Sos in caso di grave pericolo».
È sicuro d’aver calcolato bene il tragitto? Anni fa il capitano di vascello Paolo Freni, comandante di Marifari, mi disse che le coste italiane si estendono per 8.000 chilometri.
«Seguendo ogni più piccola insenatura, sarà senz’altro così. Ma io devo “tagliare” le baie. Inoltre i miei 3.700 e rotti chilometri non includono i perimetri della Sicilia, della Sardegna e delle altre isole. Ho impiegato cinque giorni a fare i calcoli sulle carte nautiche. Di mio avrei lasciato a casa il Gps, che però s’è rivelato indispensabile per valutare la velocità e quindi capire, in base alle condizioni del mare, se posso raggiungere la meta che mi sono prefisso oppure se è più prudente ripiegare».
Quante miglia percorre al giorno?
«Me ne sono imposte 20. Ma la media della prima settimana è sulle 17, alla velocità di 3 nodi (5,5 chilometri orari, ndr). Solo entrando a Venezia con vento, onda e corrente favorevoli sono riuscito a toccare i 6,7 nodi, un’enormità».
È un bel lusso poter trascorrere quasi quattro mesi per mare.
«Sarebbe un lusso trascorrere quattro mesi a Milano. Spenderei molto di più».
Cercava la solitudine?
«No, se devo essere sincero. Ma nessuno si decideva ad accompagnarmi. Alla fine mi sono detto: parto da solo».
Non voleva perdersi la ricorrenza dei 150 anni dell’Unità d’Italia.
«Centocinquant’anni sono un traguardo ma anche un punto di partenza. Volevo ricordare agli italiani che il mare, con la sua biodiversità, è la nostra principale ricchezza».
Che cosa le manca di più in mare?
«Un libro. A malincuore ho dovuto lasciare a terra il primo volume dei Saggi di Montaigne perché nei gavoni proprio non mi ci entrava».
Qual è la difficoltà maggiore di un’impresa come questa?
«Non trovarsi in difficoltà. È l’imperativo del buon marinaio. In barca a vela mangi, bevi, fai pipì, ti copri se hai freddo, vai sottocoperta se diluvia. In kayak non puoi fare nulla di tutto questo. Sono protetto solo dal tuilik, la giacca stagna con copripozzetto integrato che gli inuit si fanno con la pelle di foca. Devo sempre sapere dove approdare nel caso che il tempo giri così oppure cosà».
E quanto ci mette il tempo a girare?
«Ah, in un quarto d’ora può alzarsi una botta di vento da 30 nodi».
Perché ha scelto proprio il kayak?
«Perché si sta seduti sotto il livello del mare, si naviga con le mani sempre a contatto con l’acqua e si percepisce il mutamento del clima attraverso il chilling factor, il coefficiente dato dal vento e dalla pelle bagnata, non misurabile con termometri e strumenti. È come se fossi una stazione meteo. E poi navigo nel silenzio più assoluto. Non dimentichi che gli inuit sono cacciatori, hanno costruito il kayak per sorprendere i branchi di foche. Posso avvertire il fruscio provocato dai tuffi di un piccolo banco di acciughe. Sento l’odore di un pesce o l’alito di un cetaceo. In barca starei a due metri e mezzo dall’acqua. In kayak sono “dentro” il mare. Per effetto della curvatura terrestre, cambia persino l’orizzonte: al massimo mezzo miglio, non più le tre miglia di visibilità che si hanno da uno yacht».
E se si rovescia?
«C’è una manovra, detta eskimo, per tornare su».
Come s’è avvicinato al kayak?
«A 12 anni, durante una vacanza al mare in Sicilia, a Terrasini, mi innamorai follemente di Hélène, una mia coetanea belga. Le nostre madri fecero amicizia. D’estate io andavo in vacanza da lei a Nieuwpoort e d’inverno lei veniva in montagna con la mia famiglia in Italia. Col fratello Gaetan a 13 anni affittai un kayak per navigare lungo il fiume Lesse, nelle Ardenne. Fu una rivelazione. Da allora, e fino ai 20 anni, ho disceso i fiumi e i torrenti più impetuosi dell’arco alpino: Inn, Soca, che è l’Isonzo sul versante sloveno, Anza, Diveria, Enns, Gail, Guil, Guisanne, Salza, Sesia, Maggia, Moesa, Mastallone, Sarca di Val di Genova, Sermenza, Sessera, Strona, Ubaye, Verzasca. Credo d’essere stato il primo ad affrontare in kayak il Boite, a Cortina d’Ampezzo».
E com’è che la passione per il kayak è riesplosa 30 anni dopo?
«Fra il 2009 e il 2010 l’industria nautica si è fermata a causa della crisi economica. Per me questo ha significato meno libri, meno siti, meno brochure. Sono stato costretto a chiudere l’azienda. Ho pensato: qui bisogna che m’inventi qualcosa. Siccome ho sempre visitato tutte le fiere del settore, alla Kanumesse di Norimberga ho scoperto, con mia grande sorpresa, che kayak e canoe nel 2010 avevano raddoppiato il fatturato rispetto all’anno precedente».
Interessante.
«Ai miei amici armatori forse non piacerà quello che sto per dirle, ma in tutto il mondo capita un fenomeno assai strano. Chi si appassiona al mare, prima o poi si fa la barca e a quel punto subisce una trasmutazione: non s’interessa più al mare, ma soltanto alle barche dei vicini, quasi sempre più lunghe, più accessoriate, più lussuose. Perciò il mio messaggio è questo: cercate di rimanere fedeli al mare e alle coste, non ai natanti. Col kayak si possono vedere posti bellissimi spendendo poco o nulla».
Finora che cos’ha visto di bellissimo?
«Non vorrei apparire banale: i colori. Alle foci dell’Isonzo ho visto i cigni neri dal becco rosso. Al largo di Trieste mi ha sfiorato una colonia azzurra di velelle, meduse molto simili alle pericolosissime caravelle portoghesi che provocano la paralisi e l’arresto cardiaco nell’uomo. Nella laguna di Grado ho trovato due tipi diversi di rosmarino. L’altrieri un grosso esemplare di occhiata mi è saltato da dritta a sinistra della prua quasi che fossi un intralcio alla sua nuotata».
E di brutto?
«Dopo Sistiana, prima del Castello di Duino, ho visto un albergo a mare così orrendo da poter competere con l’ecomostro del Fuenti. A Lignano mi sono fermato su un isolotto fatto solo di conchiglie: purtroppo sulla costa di fronte avevo un muraglione di hotel alti cinque piani, edificati senza criterio. Vabbè, ormai ci sono, il peggio è stato fatto. Ma se cercassimo di non ripetere più questi errori in futuro?».
Che cosa rappresenta per lei il mare?
«Talmente tante cose che non saprei risponderle... Un legame molto forte, molto profondo».
La prima volta che lo vide?
«Da piccolo. I miei genitori mi portarono apposta in Liguria per mostrarmelo. Nella testa ho ancora un’immagine in bianco e nero di Paraggi».
Mentre voga in mare a che cosa pensa?
«Ci pensavo proprio due giorni fa, a che cosa penso. Partendo immaginavo che avrei avuto a disposizione un sacco di tempo per riflettere. In realtà ho scoperto che in mare non c’è spazio per la vita contemplativa. Devi tener d’occhio la velocità, trasmettere via satellite il punto in cui ti trovi, verificare se la marea ti sta dando più corrente o meno corrente, controllare se il vento sta facendo il girasole o se insiste con lo stesso angolo. È tutto e sempre in movimento».
Deve fare il comandante di se stesso.
«Non sarei riuscito a dirlo meglio. Prenda le previsioni del tempo. Utilissime, per carità. Però quando sei in mare puoi buttarle, lì devi sapere che un certo tipo di nuvola darà luogo a un evento inaspettato».
Lei dice che «il mare, con la sua biodiversità, è la nostra principale ricchezza». Stando in mare s’è fatto un’idea di com’è nata questa varietà di organismi che convivono nell’ecosistema?
«La biodiversità è la chiave di volta del giardino terrestre. Non puoi coltivare soia tutti gli anni nello stesso campo».
La mia domanda riguardava le origini del paradiso terrestre.


«È una creazione».
Guardi che è pericoloso proclamarsi creazionisti, di questi tempi.
«Penso che ci sia spazio per Charles Darwin e anche per la mano di Dio».
(541. Continua)
stefano.lorenzetto@ilgiornale.it

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