La fabbrica dell’arte

nostro inviato a Pechino
Gli edifici hanno ancora la forma austera dell’edilizia sovietica anni Cinquanta, quando Cina e Russia erano ancora sorelle, ma la prima era la minore e l’altra la maggiore, quella che da nazione agricola era divenuta una potenza industriale... Mao voleva imitarla, e poco importa se nel giro di un decennio il rapporto di sudditanza si trasformò in rivalità al punto che, in previsione di un attacco aereo, se non nucleare, il Grande Timoniere fece costruire una specie di Pechino sotterranea, 26 chilometri scavati con il piccone dove alloggiare almeno 300mila fra compagni e compagne. «Voglio che si possa scomparire sottoterra come topi in una tempesta» fu la poetica immagine usata... Oggi è un museo, al 62 di Xidamochang Hitong, ma al di là del sorprendente camuffamento che, allora come ora, ne nasconde l’ingresso, non vale la visita. Gran parte delle sale sono chiuse (lì sotto c’era di tutto, scuole e infermerie, cucine e barberie, persino un cinema), lo spazio percorribile è limitato e dopo un chilometro e passa di tunnel umidi ti ritrovi uno scantinato in forma di negozietto per turisti che cerca di venderti improbabili articoli in seta. Qui, insomma, il passaggio al capitalismo non è uscito dal tunnel.
Gli edifici di cui parlavamo all’inizio sono altri e raccontano la nuova Cina allo stesso modo dello specchio grazie al quale Alice saltava nel paese delle meraviglie. Erano nati a Dashanzi, l’estrema periferia del quartiere di Chaoyang, come un insieme di officine denominato Fabbrica 798: producevano componenti elettroniche per radio e sistemi di trasmissione, munizioni, materiali per l’armamento leggero, erano l’orgoglio del Piano economico centralizzato grazie al quale rifare l’economia socialista da cima a fondo. Architettonicamente richiamavano una sorta di Bauhaus in ritardo sul proprio tempo, strategicamente rappresentano il simbolo del nuovo corso che del complesso di Zhonghanhai era il punto di forza. Andò avanti così per un ventennio, sino a che il post-maoismo si rese conto che l’economia pianificata ormai pianificava solo disastri, l’industria di Stato solo debiti. Bisognava riqualificare, diversificare, andare in attivo... Nessuna riconversione però diede i suoi frutti, e nemmeno il tentativo di scaricarne oneri e spazi alla municipalità cittadina in cambio di una sua destinazione d’uso come centro dello smaltimento dei rifiuti urbani. Il «rosso» arrivò a cinquanta milioni di euro.
Nel 1995, l’Accademia d’Arte si trovò temporaneamente sprovvista della propria sede per dei lavori di ammodernamento: cercava metri quadri alternativi, molti, temporanei, a basso prezzo. Venite in affitto da noi, dissero i responsabili della Fabbrica 798. E così fu. Il nuovo corso si rivelò felice. Lasciati liberi dall’Accademia, gli spazi vennero di volta in volta affittati a privati: pittori, disegnatori, grafici, tipografi. Poi si aprì ai bar, ai ristoranti, alle gallerie. Nel Duemila il disavanzo era stato praticamente dimezzato, il canone d’affitto adeguato alle regole del mercato. Risultato: oggi il 798 è il centro della vita artistica di Pechino, una gigantesca Breda, una Brera moltiplicata più volte, un Greenwich Village in stile operaio.
Alice nel paese delle meraviglie, dicevamo. Come definire altrimenti il visitatore che si ritrova di fronte la statua in bronzo di un lavoratore che invece della falce e del martello impugna un pennello? Come mettere insieme un gruppo di operai autentici, alle prese con le loro tagliatelle di riso nella pausa-pranzo di un cantiere che li alloggia in baracche rudimentali di dieci letti a castello per stanza, con le anoressiche e lattee lettrici di riviste di design che sorseggiano vino bianco ai tavolini di un caffè dal décor iperminimalista, tutto tubolari d’alluminio color ghiaccio? Come orientarsi fra quadri dove il rosso del maoismo diventa il sangue della nazione, il giallo della Cina il volto di un alieno, installazioni a forma di toboga da cui si esce scivolando, video che mischiano inondazioni e manifestazioni di massa, epidemie e parate militari, sculture che trasformano guardie rosse del tempo che fu in calvi nani ghignanti, collage fotografici in cui piazza Tienanmen e McDonald’s assumono la stessa funzione? Come combinare il giallo-grigio sporco dei mattoni da fabbrica con il nitore da loft superlusso, con l’ipercolore di locali alla moda e di studios?
Alice nel paese delle meraviglie vuol dire che l’arte d’avanguardia, astratta, concettuale, contemporanea, povera, post moderna, chiamatela un po’ come volete, sta oggi alla Cina che nelle Olimpiadi ha celebrato se stessa come il libretto rosso delle massime di Mao stava alla Cina che nella rivoluzione culturale classificava gli artisti e/o intellettuali come «categoria puzzolente». Alice nel Paese delle meraviglie vuol dire che l’arte d’avanguardia, astratta, concettuale, contemporanea, povera, postmoderna, chiamatela sempre come volete, rappresenta la Cina d’oggi nell’ottica dei mercanti d’arte e dei collezionisti occidentali che l’hanno imposta e trasformata in business.
Qualche dato aiuta a chiarire meglio questo concetto. Uno dei quadri che fa parte della serie Bloodline di Zhangxiaogang, ritratti di famiglia in bianco e nero con macchie di colore, su fondi grigi, è andato all’asta da Sotheby’s per due milioni di dollari. Il Papa di Yue Minjun detiene il record del prezzo più alto pagato per un pittore vivente cinese, quattro milioni di dollari, le Miss Mao dei fratelli Ghaozhen e Gaoqiang, piccoli busti del Presidente con le tette e il naso da Pinocchio, arrivano a 80mila dollari, le quotazioni di Fang Lijun o di Yue Minjun raggiungono milioni di dollari. Al 798 il belga Jean Michel Wilmotte e la sua compagna cinese Ma Qinyun hanno creato un centro culturale che si chiama Ucca, si estende su 8mila metri quadri di vecchie officine, è contemporaneamente museo, collezione, laboratorio, galleria, spazio multimediale, fondazione noprofit (tutto viene reinvestito nell’attività artistica). E va da sé che il 798 è la parte per il tutto: Caochangdi, con la galleria Courtyard e il China art Archives & Warehouse, Fejijacun, il Brewery International Art Garden raccontano la medesima storia... Dimenticavamo: stiamo parlando di artisti la cui età media è sotto i quarant’anni...
La libertà di espressione di cui godono le arti plastiche non deve trarre in inganno. Il potere sa benissimo che gli artisti giocano sull’ambiguità di un’interpretazione che, come tale, è opinabile, contraddittoria, rovesciabile. Non è il bianco e nero della scrittura, il mettere su carta il proprio pensiero e quindi il proprio sentimento, ciò che costò l’esilio a Gao Xingjian, uno che ha vinto il Nobel per la letteratura da cittadino francese... Se la contestazione non è rivendicata, se l’intenzione non è esplicita, perché reprimerla? È, se si vuole, anche una valvola di sfogo, oppure una foglia di fico atta a coprire una realtà censoria che se necessario sa dove colpire.
Anche gli artisti sanno benissimo che il potere è ambiguo, li lusinga e se ne serve, li blandisce e in fondo li corrompe, è intimidente proprio perché imperscrutabile. Non è un’annotazione moralistica, è un dato di fatto, e poi è troppo facile gridare alla libertà dell’artista o dell’intellettuale stando nella comoda situazione di chi quella libertà se l’è ritrovata come un atto dovuto. Resta però l’interrogativo legato all’immagine vera della Cina che da tutto questo viene fuori. Nella lunga corsa verso l’Occidente Pechino è arrivata a produrre un’arte che piace agli occidentali perché sono loro che di fatto la rendono possibile. Dietro al talento e alle individualità di pochi si è creata come una scuola, una moda, che ha fatto del proprio meglio per venire incontro ai gusti degli eventuali compratori.

È insomma, per certi versi, un altro fenomeno di originalità telecomandata, ovvero di adattamento e copiatura. E forse aveva ragione il romanzesco mandarino Than, una sorta di Sherlock Holmes vietnamita, quando ironicamente osservava che «la sola cosa che i cinesi non hanno rubato è la loro fama di truffatori».

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