In fabbrica l’ironia degli operai «Br? Hanno sbagliato secolo»

A Sesto San Giovanni, città del centro sociale Fucina, i «compagni» non solidarizzano con gli arrestati

da Sesto San Giovanni

Dal portafogli estrae una tessera: Pci anno Sessantanove. C’è la falce e martello, la stella sopra le bandiere rosse sventolate dai compagni e dalle compagne. Presentazione doc con racconto del «brivido su per la schiena» quando «al Tg1 hanno detto che quelli della Fucina erano finiti in galera. Quelli della Fucina? Ma come, mi sono chiesto, quella è la start up del compagno Filippo Penati e produce terroristi?». Pausa. «Mio figlio m’ha svegliato dall’incubo: quella di Penati si chiama Bic-Fucina, quell’altra è senza bic ma pure senza cervello».
Ride il compagno Emilio, con alle spalle una vita a tirare la lima al Forgia della Breda. Adesso, tira il carrello nell’Ipercoop di Sesto San Giovanni e trascina dietro pure il nipotino. E ride di cuore di quell’errore, che nascondeva una paura di troppo. Di «quelli» invece non se ne cura, per quei «quattro rimbambiti» al massimo scuote la testa.
Segnale che è il comune denominatore della Sesto d’oggi, dell’ex Stalingrado d’Italia dove gli operai sono diventati merce rara. L’«operaio massa» vagheggiato dai nuovi brigatisti non esiste più, «tensioni sociali? Ue’, Walter Alasia è morto e sepolto, gli studenti non sono più rigidamente al fianco delle tute blu» confida un quasi sessantenne ingegnere, «genitori operai», che con il fratello di Walter, Oscar, giocava ai cowboy nel cortile di via Leopardi.
Inutile battere la Sesto rossa alla ricerca della solidarietà con i compagni, «quelli sono solo delinquenti rimasti con la testa indietro» è il leitmotiv che rimane sul taccuino. Una sola nota è fuori dal coro: «Quando si era parlato di esuberi, di tagli alla Wind quelli della “Fucina” erano stati i primi a mobilitarsi e di questo bisogna rendergli onore» afferma un dipendente della società. Parole pesanti come pietre che in viale Edison sono declinate in un manifesto di quel centro sociale ospitato nei locali di un società di mutuo soccorso. Parole che l’anonimo dipendente chiede di completare con una premessa, «nessuna volontà di farne degli eroi».
Sostantivo, quest’ultimo, che al civico 44 di via Falck - dove Fucina ha sede - si ritrova su un muro mischiato tra scritte anarchiche, stelle a cinque punte e slogan pro-palestina. Muro con manifesti identici a quelli che ricoprono la sede lombarda della Cgil in viale Marelli: «La lotta non si arresta», «Terrorista è chi ci affama e fa le guerre, non chi lotta a fianco dei popoli». «Era ben altra roba nei Settanta» dicono alla libreria Tarantola, cuore culturale di Sesto e giù con i ricordi del passato che spiega il presente: «C’era l’amianto alla Breda, i papà lavoravano alla Breda e la città aveva la salute rovinata. I figli l’avevano sulla pelle e scendevano in piazza un giorno sì e l’altro pure contro il padrone senza andare troppo per il sottile se il vicino fosse o non fosse un compagno che sbagliava». Già, anche quelli che sbagliavano «erano pur sempre dei compagni». Questi «no», questi «non sono». Il loro salto nell’illegalità è «fantozziano»: aggettivo ripetuto all’infinito in ogni chiacchera in quel di Sesto. Come dire: grotteschi, tragicomici e «senza neppure aver con sé l’orgoglio di essere la classe operaia». Fa sorridere sentirselo dire nel cuore di un centro commerciale, dove non c’è traccia di ribellione sociale e dove l’ex Stalingrado rossa non è più il centro della disperazione industriale.

Fa sorridere ma «deve far riflettere»: «Quando Marco Biagi fu ucciso, la Fucina sui muri inneggiò alla lotta armata. Pazzi, fuori dal tempo e senza uno straccio d’operaio con loro perché figli di questa stagione, di call center e di centri commerciali».

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