Fabio Capello, il mister dell'inglese fai da te

L'allenatore: "Mi bastano cento parole". I tentativi di imparare meglio la lingua non possono che renderlo ancor più simpatico. E ora è il simbolo di chi se la cava tra gesti e mezze frasi

Fabio Capello, il mister 
dell'inglese fai da te

Fabio Capello li ha lasciati sen­za parole. Lui, che è uomo che ne ha bisogno pochissime. Tante criti­che al suo inglese per nulla fluen­te, e il mister li ha stroncati così: «Ho bisogno al massimo di cento parole». Se deve parlare di calcio, ovviamente. «In questo mestiere è importante quando parli coi gioca­tori. Se dovessi parlare di econo­mia o di altre cose, non ci riuscirei. Ma quando parli di tattica, non usi molte parole». Accontentati, i gior­nalisti inglesi e l’isola intera. Vole­vano punzecchiare e sono stati morsi, perché poi il mister si è pro­prio indispettito: «Credo che quan­do parlo coi giocatori, loro capisca­no tutto. Tu mi capisci? Quante lin­gue parli?» ha chiesto a uno dei suoi critici.

E tanto ha fatto arrab­biare gli inglesi, tanto ha risolleva­to l’orgoglio di migliaia di italiani abituati a esprimersi in macchero­nico ma anche, come lui, a farsi ca­pire quasi sempre. Il Sun non ha torto quando ricor­da lo stipendio del mister (parola che è di sicuro fra le cento maneg­giate), 6 milioni di sterline l’anno, che calcolando fanno 60mila sterli­ne a parola, insomma il macchero­nico di Capello sarà molto Italian style ma è costosetto, niente da di­re. Ma bisogna anche ammettere che le sue parole, almeno quelle ri­portate dalla stampa britannica, sono chiarissime. E quindi il mi­ster è quasi un modello per la gran parte dei connazionali alle prese con un’altra lingua. Impacciati, con accenti improbabili, ma alla fi­ne capaci di cavarsela.

E mai schiz­zinosi, come certi stranieri nel no­stro paese, che neanche pronun­ciano una parolina in italiano. Il mister ha alle spalle una certa tradizione, e i suoi tentativi di im­parare meglio la lingua (ha giura­to: «Cerco di migliorare ogni gior­no. Ascolto la televisione, ascolto la radio, e studio pure») non posso­no che renderlo ancora più simpa­tico a chi sa per esperienza che ogni impegno, in questo senso, è vano. Perché se pronunci «pliiiz», come il ministro Rutelli nel cele­bre spot per il sito Italia.it, le spe­ranze vanno lasciate subito, come già spiegava bene la porta dell’In­ferno (Dante di lingua se ne inten­deva, ovviamente). Del resto a Ru­telli si potrà imputare di aver parla­to come un libro stampato (delle scuole elementari), ma chi lo può accusare di non essersi fatto capi­re? Il messaggio era chiarissimo: «Pliiiz, visit Italy». Ecco. Tre parole e via.

Alla fine di ogni gara Valenti­no Rossi deve cercare di spiegarsi come può ai suoi fan in giro per il mondo: ma c’è qualcuno che lo ami di meno perché non conosce il passato dei verbi inglesi? Figuria­moci. The doctor, le parole che gli interessano le conosce bene. I win, e questo basta. È anche molto di più di quanto non si sia mai sen­tito da Schumacher in italiano, pe­raltro. Gli italiani sanno come gestire le difficoltà con lo straniero, ricorro­no alla mimica facciale, ai gesti, e a qualche sorriso per conquistarsi la sympathy dell’interlocutore, che in maccheronico sarebbe la simpatia, ma in realtà è la com­prensione ed è tutto ciò che serve in quei momenti. L’italiano dice pardon, pronunciato magari par­dòn, e non sa che alla regina Elisa­betta non basterebbe nemmeno, perché lei dice I beg your pardon, e questa è scala sociale, aristocra­zia. Ma se la cava proprio perché non esagera. Altro che snob.

Co­me Capello, calcola limiti e neces­sità e poi si regola.

Il problema sor­ge quando vuole strafare: è con la sua «traduzione in simultanea» dell’intervista a De Niro che la Ca­nalis si è attirata gli sfottò del dopo Sanremo, si fosse limitata a due pa­role, come il mister, l’avrebbero applaudita tutti. Perché si sarebbe­ro immedesimati.

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