Faccia a faccia Berlusconi-Bossi sull’Udc

Giannino della Frattina

RomaUn patto scritto col sangue in nome del federalismo. Ecco cosa chiederà oggi Bossi a Berlusconi, nell’atteso vertice di villa Campari, a Lesa, sulle sponde piemontesi del Lago Maggiore. Testimoni saranno il ministro dell’Economia Tremonti, quello degli Interni Maroni e il governatore del Piemonte Cota. Un summit che si preannuncia decisivo per le sorti del governo ma anche muscolare tra i due alleati. È vero che i due sono legati da un patto d’acciaio e hanno un idem sentire rispetto a qualsivoglia manovra di palazzo. Entrambi ritengono impraticabile qualsiasi altro governo diverso da quello scelto dagli elettori alle ultime politiche del 2008; entrambi soffrono l’attuale logoramento perpetrato dai finiani che, si presume, proseguirà ad oltranza. Ma è altrettanto vero che le ricette per uscire dall’impasse politico non coincidono perfettamente.
Berlusconi cercherà di convincere il Senatùr che occorre aprire all’Udc e lo farà assicurando che, alla fine, Casini non si metterà di traverso sui decreti attuativi del federalismo. Spingerà sull’amico Umberto sventolando l’unica bandiera che sta veramente a cuore al Carroccio e minimizzerà il carattere centralista e sudista dell’ex democristiano. Presumibilmente, tuttavia, il Cavaliere dovrà sudare sette camicie per convincere Bossi che, da sempre, considera i centristi vecchi arnesi della politica e refrattari alle riforme. Berlusconi, in sostanza, ribadirà il concetto espresso dal vicepresidente della Camera Maurizio Lupi, secondo cui «con l’Udc si devono abbassare i toni» perché con i centristi «non si cercano voti per il governo ma l’apertura di un dialogo con una opposizione costruttiva», come quella «che ha portato all’approvazione in Parlamento del federalismo fiscale». Bossi, al contrario, cercherà di convincere il Cavaliere che imbarcare Casini avendo perso i finiani, sarebbe come cadere dalla padella alla brace. Piuttosto, molto meglio le elezioni perché, dirà il Senatùr, «i voti li abbiamo io e te, Silvio. Alle urne li polverizziamo tutti...». La linea del Carroccio, definita ieri in via Bellerio con un pugno di fedelissimi tra cui il ministro per la Semplificazione Calderoli e il segretario nazionale Giorgetti, attualmente è questa: elezioni anticipate per evitare di finire in un pantano per i prossimi tre anni. Perché, agli occhi del Carroccio, di Pier non ci si può fidare visto che già in passato ha piantato grane. Presumibilmente Bossi giocherà anche la carta tempo: se elezioni dovranno essere meglio andarci immediatamente. In fondo converrebbe anche a Berlusconi. Se infatti il premier dovesse aspettare la primavera, ci sarebbe il rischio che, bocciato il legittimo impedimento dalla Consulta, si sia costretti a fare una campagna elettorale con la spada di Damocle delle procure sulla testa. E se addirittura arrivasse una condanna dai magistrati militanti ci sarebbe un nemico in più con cui fare i conti. E poi, chiederà Bossi al premier, siamo così sicuri che i centristi sono disposti ad aiutarti su processo breve e lodo Alfano?
Le pressioni per tornare al voto subito, magari addirittura a dicembre, sono anche motivate dal fatto che i sondaggi in mano al Senatur gli sorridono. E sono gli stessi che ha in mano il premier: cifre che rendono più euforica la Lega del Pdl. Il rischio che il risultato possa comportare un travaso di parlamentari dal Pdl alla Lega c’è ed è grande. E di farsi cannibalizzare dal Carroccio, il Cavaliere non ha nessuna voglia. E poi, ed è su questo che punterà Berlusconi, non è detto che da qui a dicembre si possa restare così ottimisti. Con l’aggiunta dell’incognita del Senato: con l’attuale legge elettorale e il premio di maggioranza su base regionale, al Sud il Pdl dovrebbe correre e vincere da solo. E qualora non si faccia l’en plein ci sarebbe il forte rischio di avere una maggioranza magari solidissima alla Camera ma non altrettanto a palazzo Madama. Quindi che fare? Forse meglio aspettare un po’ e guadagnarsi l’appoggio di Casini sui singoli provvedimenti all’ordine del giorno appena riaperti i lavori parlamentari: Mezzogiorno, sicurezza, giustizia, fisco e, appunto, federalismo fiscale.
Ed è proprio sul federalismo che il Senatur detterà le proprie condizioni per accantonare il richiamo immediato alle urne: «Se tu, Silvio, mi dai granitiche garanzie su modi, tempi e metodi di approvazione dei decreti attuativi del decentramento ci posso anche stare». Insomma, lo spazio per un’apertura di credito nei confronti dei centristi di fatto c’è. Resta da capire quanto grande e soprattutto cosa vogliono in cambio Casini & C. E qui torna in campo Tremonti. Già, perché era ventilata l’ipotesi di una sorta di patto: il federalismo a Bossi e il quoziente familiare (ossia la misura fiscale che consente di dividere il reddito per il numero dei componenti la famiglia ndr.) a Casini. Peccato che questo intervento, seppur nel programma di governo, attualmente sia improponibile.

La sua applicazione, infatti, è onerosissima e comporterebbe un minor gettito fiscale da tre miliardi in su all’anno. Cifre spaventose che hanno già fatto dire a Tremonti che, oggi, il quoziente familiare sarebbe «una pazzia».

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