Faccia a faccia disastroso tra alleati che non si amano

Lo chiamano Bibì, ma rischia di diventare il nuovo Bertoldo. Diciamocelo: stavolta Benjamin Netanyahu ne ha fatte non una, ma almeno due o tre più del dovuto. E i risultati si vedono. Mai i rapporti tra Stati Uniti e Israele erano caduti tanto in basso. Mai le relazioni tra i due alleati erano state più difficili. Mai la Casa Bianca aveva valutato concretamente l’idea di un cambio di governo a Gerusalemme resuscitando dall’oblio politico il partito di Kadima e l’ex ministro degli Esteri Tzipi Livni. E in questa infuocata partita il premier israeliano Benjamin Netanyahu non ha certo giocato il ruolo del pompiere.
Per capire che il futuro dei rapporti con Obama si sarebbe giocato nel vertice di martedì sera alla Casa Bianca non serviva essere un mago. Bastava aver seguito il progressivo deteriorarsi delle relazioni con Washington. La discesa all’inferno incomincia due settimane fa, durante la visita del vice presidente statunitense Joe Biden a Gerusalemme. Un appuntamento mandato a rotoli dall’annuncio del via libera alla costruzione di 1.600 nuovi appartamenti in quella Gerusalemme Est il cui «status» deve, secondo la comunità internazionale, venir deciso da una trattativa con i palestinesi. L’intempestivo annuncio è solo il primo di una serie d’indigeribili sgarbi. Quello fatale Bibì lo mette a segno poche ore prima del vertice spiegando al congresso dell’Aipac, la principale lobby statunitense filo-israeliana, che costruire a Gerusalemme è come edificare a Tel Aviv perché «il popolo ebraico costruisce a Gerusalemme da oltre tremila anni e continuerà a farlo».
L’uscita, già avventata in un contesto sereno, si trasforma in un’autentica entrata a gamba tesa. Anche perché lunedì il segretario di Stato Hillary Clinton e il vicepresidente Joe Biden avevano liquidato come carta straccia la lettera d’impegnativa del premier israeliano destinata nelle intenzioni a regolare le trattative con i palestinesi e il confronto con l’Iran. La Clinton e Biden avevano invece chiarito che la Casa Bianca si aspettava molta più disponibilità con i palestinesi e molta più moderazione con Teheran.
Il peggio di sé Bibì lo offre però nel corso dell’insolito doppio colloquio con Barack Obama. Una doppia partita interrotta per 90 minuti dopo una prima difficile ora e mezza e ripresa poi, su precisa richiesta del premier israeliano, per altri trenta minuti. I segnali di un clima teso sono evidenti fin dall’inizio. Per Bibì alla Casa Bianca non ci sono né fotografi, né sorrisi, né strette di mano. L’avvertimento è chiaro. Obama vuole far capire che è tempo di offrirgli quel che si aspetta. Netanyahu invece tira dritto per la sua strada. E a far precipitare la situazione s’aggiunge, mentre i due stanno discutendo, l’annuncio del via libera del municipio di Gerusalemme ai lavori per la ristrutturazione dell’Hotel Shepherd, un edificio nella zona araba della città al centro di una furibonda contesa con i palestinesi prolungatasi per oltre 18 anni. Obama, indispettito dal nuovo intempestivo sgarbo, non perdona più nulla. Dopo la prima ora e mezza di colloqui congeda Netanyahu come uno studente impreparato. E non concede nulla di più neppure quando Bibì - reduce da 90 minuti di consultazioni con i suoi consiglieri - lo prega di riprendere i colloqui.
E il peggio forse deve ancora venire. Nonostante i tentativi di Netanyahu e del suo staff, rimasti a Washington per ricucire i rapporti, Barack Obama e Hillary Clinton non sembrano disposti a cedere. E alla Casa Bianca già gira voce di un piano per favorire un cambio di governo a Gerusalemme.

Un «cambio» favorito da un progressivo isolamento politico e da una sforbiciata agli aiuti economici che costringerebbero Netanyahu ad abbandonare gli alleati di estrema destra per formare una nuova coalizione con l’ex ministro degli Esteri Tzipi Livni e il partito Kadima.
Un governo confezionato su misura da Washington, un governo pronto a trattare con i palestinesi e ad assecondare la difficile partita internazionale giocata da Barack Obama.

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