Politica

Faida tribale

La domanda che molti si pongono in questo momento, e cioè se la mattanza fratricida in corso a Gaza fra i Palestinesi è una guerra civile, oppure quel «bagno di sangue» da cui potrebbe finalmente nascere l'identità dello Stato palestinese, è una domanda fuori posto. Lo è perché coloro che si combattono a Gaza (ma anche fra le fazioni palestinesi nei campi profughi libanesi e in maniera differente a Bagdad) non rappresentano una società ma i parassiti armati di una popolazione divisa in clan famigliari la cui sopravvivenza è legata all'esistenza di uno stato di anarchia.
Le ragioni di questa tragica situazione sono antiche e legate a molti pregiudizi. Uno continuamente ripreso dai media è che l'occupazione israeliana sia la causa di tutti i mali dei palestinesi. Israele ha certo molte responsabilità che i dibattiti sulle conseguenze della guerra del 1967 hanno messo in luce in occasione del suo 40° anniversario. Ma ciò che succede a Gaza, nei campi profughi palestinesi nel Libano (e in un certo senso anche in Irak) è la dimostrazione di un male arabo che con Israele ha ben poco a che vedere: il tribalismo che fece dire al Colonnello Lawrence che gli arabi non sono i figli del deserto ma i padri.
Un tribalismo che già nel XIV secolo il grande storico berbero Ibn Khaldun (1332-1406) metteva alla base di un cultura violenta e distruttiva dei conquistatori nomadi beduini i quali poca simpatia avevano per le popolazioni sedentarie e le loro istituzioni. L'era d'oro tanto cantata dal nazionalismo arabo durò infatti poco e fu marcata da continue lotte fratricide con l'uso dell'assassinio come sistema privilegiato per il trasferimento del potere. Questo tribalismo non ha mai permesso di creare solide istituzioni statali arabe sottoponendoli per lunghi periodi della loro storia al governo imperiale.
Quello ottomano fu a lungo accettabile perché fondato sull'idea della rappresentanza divina. Quello europeo durò molto meno lasciando dietro di sé strutture «nazionali» sovrane che trovano un'unità politica solo grazie all'esistenza di un nemico.
Per mezzo secolo questo nemico sul quale tutti i regimi arabi hanno scaricato le responsabilità dei propri fallimenti è stato Israele. Lo è stato ancora di più per i Palestinesi che hanno sviluppato la loro identità collettiva solo grazie al «nemico sionista». Il movimento di liberazione nazionale palestinese - Olp - non è in definitiva stato altro che una specie di «sionismo arabo» con una differenza: la sua missione non era di costruire uno Stato ma di distruggere quello ebraico.
In queste condizioni, nonostante tutta la simpatia più o meno ipocrita che ha circondato la causa palestinese, nonostante gli aiuti finanziari internazionali, nonostante le pretese rivoluzionarie di Arafat, la realtà politica e sociale palestinese è sempre rimasta tribale, fondata sulle rivalità di gruppi e famiglie (come quella che tiene prigioniero il caporale israeliano Shalit o il rappresentante notoriamente anti israeliano dell Bbc) che nell'anarchia trovano il terreno più adatto a sviluppare i propri istinti di violenza e di reciproca atavica diffidenza.
La vittoria elettorale ottenuta da Hamas un anno fa in Palestina, lungi da dare ai palestinesi una amministrazione efficace, onesta e devota - come proclamava - alla soluzione dei problemi della popolazione, non ha fatto che far esplodere queste tendenze autodistruttive e anarchiche. Hamas non è solo formalmente impegnato a distruggere Israele ma anche a distruggere ogni velleità di Al Fatah e dell'Olp di legittimarsi come «unico legittimo rappresentante» del popolo palestinese in quanto promotore di uno Stato «laico e democratico».
A intorbidire le acque palestinesi è poi intervenuto il pericolo della risorgente potenza imperiale persiana, forte dei petrodollari, del suo potenziale nucleare e della ideologia religiosa sciita. Questo ha provocato uno schieramento arabo sunnita che a malincuore non può fare a meno d'Israele come sola potenza regionale capace di opporsi all'imperialismo iraniano.
La seconda guerra del Libano ha rivelato - assieme all'impreparazione bellica israeliana - la delusione dei Paesi arabi per l'incapacità israeliana di sconfiggere gli Hezbollah, rappresentanti armati del potere espansionista di Teheran. Non ha però messo fine al bisogno dei governanti arabi - dall'Arabia Saudita alla Siria, dai Paesi del Golfo alla Turchia - di collaborare più o meno apertamente con lui, mostrandosi piuttosto indifferenti alla sorte dei palestinesi. Che lasciati appunto alla loro sorte esprimono le loro ambizioni settarie di potere in una guerra di faide che nessuno dei loro governanti riesce a fermare.
R.

A. Segre

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