La Fallaci torna a disturbare i sonni del politically correct

Soltanto ieri il direttore del Corriere della Sera ha scoperto le "maledette regole" del conformismo. Che imperversano da anni

La Fallaci torna a disturbare i sonni del politically correct

Ieri il direttore del Corriere della Sera, Ferruccio De Bortoli, ha dato prova di grande onestà intellettuale, ricordando i giorni dopo l’11 settembre in cui convinse Oriana Fallaci a scrivere quell’articolo che - ampliato - sarebbe divenuto La Rabbia e l’Orgoglio. De Bortoli se ne compiace, a ragione, ma si rammarica di avere titolato, il giorno dopo: «L’Italia si divide nel nome di Oriana», che lui stesso definisce «Un titolo corretto, ma freddo, distaccato». Ebbe insomma, ammette, «il grande torto di seguire poi le maledette regole del politicamente corretto».

Al di là dell’episodio, colpisce che il direttore del più grande quotidiano italiano - quello tradizionalmente letto dalla buona borghesia politicamente corretta - si pronunci contro le «maledette regole del politicamente corretto».

A me capita di farlo, direttamente o indirettamente, un articolo sì e uno no, ma non sorprendo nessuno, essendomi guadagnata la fama di politicamente scorretto. (Ho addirittura raccolto e scritto, in un volume, una serie di aforismi appositi). Che lo faccia il direttore del Corriere è un’altra cosa. È il segno, forse, che i più sensibili e attenti non ne possono più. Non ne possono più di quel «politicamente corretto» che è quasi sempre l’apoteosi dell’ipocrisia, piuttosto che della correttezza, più o meno politica. Lo dimostra il fatto che ci troviamo in buona compagnia: da Schopenhauer a Voltaire, da Sartre a Wilde il pensiero occidentale abbonda di concetti «scorretti». Anzi, il «politicamente scorretto» costituisce l’ossatura del pensiero filosofico, estetico, artistico, sociale, almeno da Gesù in poi: senza l’andare controcorrente di pochi grandi, l’umanità avrebbe progredito ben poco.

L’apologia del politicamente corretto è una faccenda recente, ma non è detto che si tratti di una moda passeggera. Infatti ha radici saldissime nell’occhiuta vigilanza che ogni gruppo, ogni minoranza, esercita su ogni altro gruppo, su ogni maggioranza: per non esserne sminuito, contraddetto, offeso, sia pure involontariamente. Non mi sembra un fenomeno destinato a calare, ma l’esempio dato da De Bortoli può essere un buon inizio di un dibattito, di un ripensamento, di una lieve retromarcia, o almeno di una rinascita del senso del ridicolo.

Oggi, se vi capita di chiamare «spazzini» gli operatori ecologici sarete sospettati di disprezzare i lavori più umili e i relativi lavoratori, anche se intendete semplicemente usare la parola imparata nell’infanzia e sempre detta con innocenza. Il «politicamente corretto», inoltre, non riguarda più soltanto modi ipocriti quanto gentili di definire individui «diversi» o socialmente svantaggiati, bensì l’intero scibile umano. Per cui non basta più ironizzare, come fece Robert Hughes in La cultura del piagnisteo: «L’invalido si alza forse dalla carrozzella, o ci sta più volentieri, perché qualcuno ai tempi dell’amministrazione Carter ha deciso che lui è ufficialmente un “ipocinetico”?». Di recente, dopo un articolo in cui ho osato affermare che due bicchieri di vino non rendono ubriachi o incapaci di guidare, alcuni lettori - pochi, per la verità - mi hanno accusato di essere un irresponsabile e di voler provocare incidenti stradali. Già, perché il politicamente corretto non riguarda più soltanto le espressioni, ma le loro presunte conseguenze: per cui il «politicamente scorretto» rischia di trasformarsi, nel giudizio di molti, in un atteggiamento «socialmente pericoloso».

Il peggio che può capitare è l’accusa di razzismo, come accadde a Oriana Fallaci, quando ci si permette di giudicare altri popoli, altre culture, altre religioni: ogni valutazione negativa viene puntualmente presa per razzismo o, al minimo, per oscurantismo. Invece non c’entrano né l’uno né l’altro, se le differenze vengono spiegate con ragioni storiche e culturali, piuttosto che genetiche. Successe anche a me, prima dell’11 settembre 2001, ovvero nel marzo del 2000. Era l’epoca in cui gli albanesi (come i romeni oggi) costituivano buona parte della criminalità proveniente dall’estero.

Pubblicai un articolo, in proposito, e posso riproporlo ai lettori del Giornale perché allora scrivevo sul Tempo. Ecco l’inizio: «Insomma, è vero o no che gli albanesi sono - fra tutte le popolazioni che ospitiamo - i più violenti e portati al crimine? Dalle notizie quotidiane, come dalle statistiche delle questure, appare chiaramente di sì. Eppure non si può mai dirlo, soprattutto nei giornali, se non si vuole passare per razzisti, xenofobi e soprattutto (grave colpa in questo periodo) non-buonisti. Bisogna però non cedere al ricatto del politicamente corretto, del buonismo a tutti i costi e quindi fittizio, e cercare di capire i motivi, a costo di apparire odiosi. Ci sono precise ragioni storiche, anche lontane, all’origine del comportamento degli albanesi, motivi che si possono analizzare, interpretare, valutare e che niente hanno a che fare con il razzismo ma piuttosto con i traumi subiti da un popolo che in pochi anni è passato dal comunismo più arcaico al capitalismo più incolto. Ciò non significa che gli albanesi siano geneticamente inferiori: è un dato di fatto però, che per secoli sono vissuti schiacciati fra l’impero austriaco e quello ottomano, usati come carne da cannone, come forza-lavoro, come preda, nascosti su montagne selvagge, isolati fisicamente e anche culturalmente a causa di una lingua difficile e misteriosa. Quello albanese dunque è un popolo che non ha mai amato e potuto mischiarsi con nessuno: debole per numero, passato e miseria. ».


Le accuse di razzismo che ricevetti furono, nel mio piccolo, pari a quelle che avrebbe ricevuto Oriana Fallaci per i suoi scritti sull’Islam. Lei non se ne pentì. Io neppure. Anche perché nessuno mi ha ancora dimostrato che, in quell’articolo, esponevo concetti sbagliati.
www.giordanobrunoguerri.it

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